Svetlana
Chi si affeziona muore
È il peccato capitale per una badante straniera. E io ci sono cascata in pieno.
Questa gente è insopportabile, petulante, sporca, buzzurra, mano lunga, braccia corte, senza carattere. Mangiano cose orribili e senza sapore. Poca carne, tanta pasta. Formaggi mollicci. Eppure non c’è nulla da fare. A questa signora italiana mi ci sono affezionata. Deve essere così per noi che abbiamo perso la madre da giovani, ne cerchiamo sempre un’altra. E quando la troviamo siamo come le papere. Sempre dietro.
Mancavo da casa da tre giorni. La cosa poteva averla colpita? Forse, ma aveva il cuore forte e sarebbe certamente sopravvissuta. Le avevo lasciato un sacco di cose pronte in frigo. Il microonde è a livello carrozzina, doveva essere tutto a posto. Se la sarebbe cavata. Poi stamattina ho provato a telefonarle per spiegare tutto. Per dirle di prepararsi. Ma lei non aveva mai risposto. Ho cercato di affrettarmi. Bella l’Italia, case antiche, giardinetti curati, supermercati ben riforniti, quello che vuoi. Ma questi qui nelle difficoltà perdono la testa. Insomma, io me ne volevo andare. Nei momenti difficili, si sa, manca la famiglia. E io avevo una sorella con un bambino in Ucraina. Il marito non c’era più. Insomma avevo quest’immagine di come potevamo ripartire, tutte insieme, tutte donne. Era un’idea di futuro che mi era parsa meravigliosa. È allora che ho pensato a Wilma. Poteva fare la nonna. Eravamo a piano terra, avrebbe potuto uscire e passeggiare con la carrozzina. Io avevo in mente di farla anche camminare un po’. Sarebbe dimagrita. Le salsicce le avrebbero fatto fare muscoli. Era un piano perfetto. Solo che i confini erano stati chiusi. E io non avevo una macchina. Mica la potevo portare con l’autobus delle badanti. Così era rimasta un’idea per settimane. Poi il virus, aveva tirato tutte le corde possibili, e avevo deciso. Appena i confini sono stati riaperti non ho avuto più dubbi. Era ora di migrare. Di tornare a casa.
Cosa avevo costruito in questo paese? Un lavoro ben remunerato che mi avrebbe portato all’inferno in cui prendevo a cinghiate uomini che indossavano orribile biancheria intima. Un amante che mi idolatrava ma, flaccido e senza midollo, non era riuscito nemmeno a chiamarmi in tutta la quarantena. Tutto a posto. Non lasciavo niente, mi portavo dietro Wilma. Mancava ancora la macchina. E così avevo ordinato un pacco. Il servizio espresso mi permetteva di vedere sul cellulare gli spostamenti del corriere. Quando quello è arrivato al numero 19, io ero lì ad aspettarlo. Nel caos. Fumo dappertutto. Lo tiro di lato e gli parlo con la voce di Mistress Sveti che funziona sempre, un accento russo che in realtà ho perso da tempo. I pompieri stanno facendo uscire quella signora Marta, che era sempre elegante e pettinata prima che il marito andasse via. Esce dal portone distrutto, avvolta nella coperta ignifuga, da sotto spunta una vestaglia bruciacchiata, ha in mano uno spruzzino e blatera qualche cosa mentre i pompieri la spingono fuori a forza. Si guarda alle spalle.
Io e il corriere saliamo inosservati, mentre i pompieri si fermano sulla rampa di scale al secondo piano, all’appartamento della famiglia Rivolta, quella rumorosa coi tre figli indistinguibili. Noi saliamo di un piano. Apro la porta di Wilma con la chiave e un odore di fogna mi colpisce il cervello.
«Fermo lì», dico al corriere. Lui annuisce diverse volte. La chiamo. Nessuno risponde. Cerco in cucina, in salotto dove trovo solo delle formiche che girano impazzite in tondo cercando qualche cosa. A terra c’è dell’acqua. Il cuore mi batte. Entro in camera da letto. Niente. Apro la porta del bagno. C’è una corda che pende dalla finestra e porta al balcone del signor Viraldi. Torno in entrata, un vuoto freddo mi alleggerisce le braccia e le gambe. Una tristezza sconosciuta sta arrivando in picchiata diritta da me. Per un attimo non so cosa fare.
«Andiamo», dico. La porta del Viraldi è aperta. Stanno entrando altre persone. La coppia del secondo piano, lui sudato e debole come un capriolo avvelenato, lei più grassa che mai. C’è anche quel Felix che vive solo. Li seguiamo fino al terrazzo e lì ci sono tutti. Lì. C’è. Wilma. Ed è viva. Mi avvicino e lei non dice nulla ma apre gli occhi a forma di grotta profonda e li stringe.
«Eccola», dice.
«Scusi, signora», dico.
Il corriere si fa avanti.
«Signora Wilma Graffiani?»
Wilma annuisce, pare che abbia perso la parola.
«Il suo pacchetto», dice lui e forse è una mia impressione, ma drizza la schiena e glielo porge come fosse un infante in fasce.
Una ragazzina le porta un bicchiere di acqua. Con un rumore di ferraglia arrivano i pompieri e iniziano a dare ordini. Poi si sente un urlo che sfonda il condominio.
«Mamma!» dice la ragazzina, con un attimo di esitazione.
«È tua madre la signora del primo piano?»
«Sì, è lei, è lei»
«Stai tranquilla, è salva. Ora ti portiamo giù»
«E mio fratello?»
Il pompiere la fissa qualche secondo, per un attimo sentiamo fischiare il vento che si porta odore di bruciato. Poi prende una radiolina dal fianco.
«Ne manca uno», dice, tornate al primo piano.
Ne mancano due, penso io.
«Controlla la signora, seguila tu», dico al corriere. «Devo finire una cosa prima».
Cerco la chiave delle manette nella tasca dei jeans. Non posso certo partire con un morto sulla coscienza. A quello non avevo lasciato nemmeno il cibo. Ma non si può pensare a tutto, mi dico. Ogni piano ha delle falle.