Quando è venuta l’ultima volta? La fame mi sta facendo perdere il senso dei giorni. Eppure anche dalla mia postazione a terra mi preoccupo di Svetlana. Quella povera ragazza. Sempre a parlare del suo paese. Non è che ne parlasse proprio. Lei non parlava l’italiano e io non parlavo l’ucraino. Ma era tutto un sospiro, il suo corpo raccontava il suo disgusto per lo stare qui. Aveva quello sguardo basso che se appena avesse alzato la testa temevo che avrebbe vomitato per lo schifo. Esagero. Da quando sono per terra le emozioni si ingigantiscono e immagini terribili a volte mi inghiottono. Dura poco. Concentro la mia attenzione sulle gambe delle sedie, sullo zoccoletto tarlato e le immagini spariscono.

Torno nel mio salotto. Svetlana era cara e precisa. Ma che ci odiasse tutti era chiaro. Forse odiava anche me, ma le servivano i miei soldi. Era un patto che funzionava. Io sapevo che qui non era felice. Addirittura, sapevo che le nostre cose da mangiare non le piacevano. Il latte, l’olio, i pomodori, la pasta la mozzarella. Appoggiava la spesa sul tavolo in fretta, come se se ne volesse allontanare. Erano cose senza gusto per lei. Peggio. Cose molli. Che sapevano di rilassatezza e arrendevolezza. Sconfitte nel piatto. Svetlana non ci capiva. Ma mi puliva bene per terra. Era precisa negli angoli. Dava sempre una controllata al portastoviglie. Non ci trovano mai una briciola. Si cambiava in bagno. Indossava leggins e maglietta e metteva le ciabattine. Spostava la mia sedia a rotelle vicino alla finestra. Poteva sembrare un atto gentile. Lo era. Ma era anche un modo per non essere vista mentre puliva. Svetlana aveva una dignità che ora mi manca. Mi chiedo cosa le sia successo.

Soffio una formica davanti a me che si sta avvicinando decisa. Da questa prospettiva la mia casa è un’altra. La formica appare persino più grande. Ne colgo quasi un’espressione diversa dalla sua amica precedente che è passata qualche secondo fa. Le formiche si stanno organizzando. Arrivano sempre più di frequente. Quando le vedrò in fila indiana con un piatto in mano, saprò che hanno un piano. Il castello da attaccare sono io.

Intanto immagino Svetlana. Da un lato la spero che sia tornata nella sua amata Ucraina. La immagino felice a mangiare quella carne speziata che mi aveva fatto tanto tossire. Non avevo la tempra, questo era chiaro nei suoi occhi, mentre toglieva veloce e precisa i piatti e le pentole dalla tavola. Mi aveva dato una chance. Aveva cucinato una cosa sua. Io l’avevo persa. Forse se la carne mi fosse piaciuta, se non mi fosse rimasta sullo stomaco per due giorni, se addirittura non le avessi chiesto un digestivo subito dopo, forse Svetlana mi avrebbe portato con sé in Ucraina. Mi immagino felice là. Forse sarei seduta a guardare gli alberi, penso ci siano alberi, e non a terra da due giorni quasi tre. Sono caduta. Tutto perché cercavo di spegnere la televisione. Le batterie del telecomando sono scariche e devo spingere quel pulsante vecchio, mi sono allungata. Niente. Sono caduta. Non ho fatto un lamento. Da quando sono vecchia, e lo sono da un po’, ho imparato a convivere con l’idea della morte. Son diventata pronta. Una volta a terra so di aver pensato, meglio qui che in ospedale. Peccato non vedere la foto di Carlo al matrimonio. Dovrei girarmi di 180 gradi, sono esattamente dietro di me sulla credenza. «Donna muore fissando la foto del marito morto nemmeno sa più quando». Sarebbe stata una cosa che avrebbero ripreso i giornali. Ffff. Via brutta formica dal mio naso.
Eppure un’altra opzione c’è. Se Svetlana si fosse ammalata?
In fondo non cambierebbe niente. Sarei comunque sola e abbandonata. Nessuno verrà a cercarmi. Eppure sento qualcosa stringersi dentro di me. Non avevo che lei. Batto una mano per terra. E se qualcuno potesse sentirmi?