Ricardo
Prigioniero in cantina
Il pavimento di questa cantina non è fatto per stare a piedi nudi. Il freddo mi sta entrando dentro. Indosso le mutande, normali mutande da uomo. Vedo i miei vestiti appallottolati e presumibilmente spiegazzati in un angolo, due gabbiotti più in là, irraggiungibili. Dopo tre giorni ammanettato ai tubi dell’acqua della cantina di questo palazzo mi rallegro di avere scelto le mutande nere quella mattina. Ringrazio anche di essere tendente alla stitichezza, l’altro estremo della funzione intestinale si sarebbe rivelato davvero inadatto alla permanenza qui giù, senza possibilità di una toilette e di una pulizia adeguata. Non ci si pensa a volte all’utilità essenziale delle mani. La differenza tra l’uomo e l’animale racchiusa in un arto. Pare una vita fa, e invece. Il buono regalo spunta ancora dalla tasca dei miei pantaloni, lo vedo, là in fondo. Ridicolo A4 stampato da me a casa e ripiegato come da istruzioni degli amati colleghi. Avevo ricevuto quel buono con una email di auguri con coriandoli animati male, in un finto 3D, che cadevano sulle parole AUGURI!!!. Solo il fatto che fosse arrivato da loro avrebbe dovuto farmi capire che era un’idea pessima e che non prometteva nulla di buono. Quel gruppo di sciacalli rincitrulliti per cui l’adolescenza non è mai finita era capace di prendere in giro un collega perché aveva gli occhiali o balbettava. Era questo il livello. Un branco di commerciali gasati con cui convivevo da anni. Essendo normodotato e poco incline alle figuracce e avendo la mano salda che mi impediva di far cadere la lunch box a pranzo o di ustionarmi col caffè della macchinetta non ero il loro bersaglio preferito. Eppure non gli era andata giù che non avessi partecipato alla festa dell’ufficio di Natale. Avevano organizzato una serata allo strip club in tangenziale. Il giorno dopo erano tutti spintoni e sorrisoni sornioni. Per settimane cercarono di coinvolgermi in una seconda uscita. La pausa natalizia non li fermò. Allo strip club non ci volevo andare, per ovvie ragioni. Il corpo femminile è bello in un quadro o come statua ma nel buio denso di un locale notturno pieno di testosterone e maschi caldi, non avrei puntato lo sguardo sui sederini che ondeggiavano, questo è certo.
La mia noncuranza verso l’argomento non gli andava giù, peggio li aveva insospettiti. «Devi divertirti! Bla bla». «Vero uomo». «Roba da maschi». «Neanche hai la ragazza». «Devi sfogarti» e altre argomentazioni inutili. Poi lo smart working e il lavoro a distanza, una liberazione. Ma in occasione del mio compleanno ecco che arriva il buono. «Visto che non sei in ufficio ti mandiamo una sorpresa!» gridavano durante le riunioni su Zoom.
«Mandaci assolutamente un video altrimenti ci offendiamo». «Ti teniamo d’occhio».
Il buono era per incontro con una mistress. Diceva solo Mistress Sveti. Dalla Russia con dolore. Banale, dozzinale, scontato, il contrario di raffinato. Eppure qualcosa nel biglietto mi aveva incuriosito. Parlava di maschere sul volto e frustini. Parlava di dolore e ordini. Soprattutto sottolineava che la penetrazione, non solo non era prevista ma era VIETATA. Si sarebbero usati guanti e disinfettanti per le mani prima e dopo, a causa del virus. Tirai un sospiro di sollievo. Dietro la maschera poteva esserci chiunque. E se serviva a farli stare zitti, avrei anche fatto la doccia a un gatto, che è una cosa che trovo agghiacciante, così molli i felini, ma questa è un’altra storia.
Avevo preso appuntamento come previsto, un messaggio su Whatsapp e una risposta stringata con luogo e ora. Mi ero ritrovato davanti ad un condominio anomalo, vecchio, cadente, qualche traccia di vecchia gloria decisamente passata, ad appena 200 metri da casa mia. Non lo avevo praticamente mai notato. Meglio così. Il silenzio regnava. Ogni tanto un grido di donna coperto da un rumore di aspirapolvere. Avevo fatto uno squillo e il portone si era aperto. Avevo seguito una figura nell’ombra che con un accento russo esagerato e presumibilmente finto mi diceva «Seguire». Come tutti quelli che si stanno per cacciare nei guai sapevo che sarebbe finita male, ne avevo quasi la certezza, ma qualche cosa mi impediva di tornare indietro, e così scesi le scale della cantina, con la premonizione nobile di un destino che si compiva. Chi ero io per salvarmi? Il resto era stato un susseguirsi di arieggiamenti con attrezzi per cui mi ero ritrovato bendato e nudo, a parte le mutande di cui sopra. Ricordo di aver sentito male ai polsi e aver sentito scattare delle manette. Poi c’erano state parole sussurrate, tacchi o punte che mi spingevano, il tutto era stato piacevole, sorprendente persino più del previsto, ricordo di aver anche immaginato di scrivere una mail di ringraziamento ai colleghi. In qualche modo ce l’avevo fatta. Mi sentivo uno di loro.
Poi lei se ne era andata. «Adesso ripossso».
Le manette erano saldamente legate al tubo dell’acqua. Potevo scegliere se morire di fame e stenti come un prigioniero o se tirare fino a spezzarmi un polso e sperare di romperlo e venire presumibilmente coperto da una valanga di acqua, che avrebbe invaso la cantina e sì, insomma avrei fatto la fine del topo. Annegato o affamato? Topo o schiavo dimenticato? Un odore di arrosto bruciato mi si infila nelle narici. Un attimo dopo vedo una luce blu lampeggiare attraverso la griglia della finestrella che da sulla strada. La luce lampeggia ma si ferma. È allora che le mie mani decidono di tirare come delle matte il tubo dell’acqua.