«There’s no calm after the storm»: Matteo de Mayda racconta i postumi della tempesta Vaia

Notti come quelle alla fine di ottobre del 2018 gli abitanti dell’Italia nord-orientale non ne ricordano molte, poche hanno fatto così paura. In una manciata di ore raffiche di scirocco fino a 200 chilometri orari e una pioggia incessante hanno divelto tetti, allagato abitazioni e cantine, fatto straripare torrenti, ma soprattutto abbattuto 14 milioni di alberi. I ricordi sono nitidi e tangibili, nonostante siano passati quasi 6 anni da quando la tempesta Vaia si è abbattuta con tutta la sua furia su Trentino, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Le pendici dei monti sono ancora cimiteri a cielo aperto per abeti a cui era affidato il prezioso compito di proteggere le valli da frane e valanghe. Quelli ancora in piedi, invece, cedono lentamente al bostrico tipografo, un coleottero parassita che sta generando danni sei volte più grandi di quelli fatti da Vaia. Ancora oggi le persone continuano a rimboccarsi le maniche per limitare gli effetti di una catastrofe di cui siamo vittime e carnefici, perché quelle notti di ottobre, in qualche modo, non sono mai finite.

Matteo de Mayda, fotografo nato a Treviso e con base a Venezia, si occupa da sempre di cause sociali ed ambientali. Per questo e per il rapporto che lo lega con il territorio colpito ha deciso di raccontare attraverso immagini di reportage, di archivio e scientifiche, le conseguenze a lungo termine di quella che noi continuiamo a chiamare “tempesta”, ma è che stata a tutti gli effetti un ciclone tropicale.

Il progetto “There’s no calm after the storm” esposto al Festival di Fotografia Europea, Reggio Emilia, 2024
(courtesy: Matteo de Mayda)
Il progetto “There’s no calm after the storm” esposto al Festival di Fotografia Europea, Reggio Emilia, 2024
(courtesy: Matteo de Mayda)

Il progetto, il cui titolo è There’s no calm after the storm, dopo essere stato esposto già diverse volte, tra cui al Festival di Fotografia Europea e al Gibellina Photo Road Festival, nonché pubblicato su Internazionale, si appresta a diventare un libro fotografico: al suo interno le fotografie si uniscono a storie di folclore, testimonianze della comunità e teorie scientifiche per fornire al lettore tutti gli elementi necessari per comprendere gli effetti dell’emergenza climatica che stiamo vivendo e il nostro fondamentale ruolo nella tenuta degli ecosistemi.

Matteo lo ha realizzato in collaborazione con il giornalista Cosimo Bizzarri, i dipartimenti TESAF e DAFNAE dell’Università di Padova e il CNR di Bologna, mentre Daria Scolamacchia si è occupata del photo editing e lo studio bruno del design e della pubblicazione del libro. Per sostenerne i costi di produzione, è possibile acquistare una copia firmata (o anche più di una!) attraverso la raccolta fondi su Indiegogo.

Ad affascinarmi fin dal principio di questo progetto è la scelta di Matteo di non accorrere subito sul luogo del disastro, ma lasciare che il tempo aiutasse a comprendere cosa fosse realmente accaduto. Ha preferito ponderare, capire, chiedere e poi raccontare.
Per rispondere a questa e altre mie curiosità, mi ha prestato un po’ di quel tempo.

Il libro “There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda, bruno, 2024
«La copertina» spiega de Mayda «è stata realizzata dall’artista Daniel Greenfeld con la tecnica del linocut e verrà serigrafata sulla tela del libro. Rappresenta il segno che lascia il Bostrico tipografo sulla corteccia degli alberi»
(courtesy: Matteo de Mayda)
Il libro “There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda, bruno, 2024
(courtesy: Matteo de Mayda)

Solitamente, quando succede qualcosa, come ad esempio un evento atmosferico catastrofico, l’attenzione è concentrata sul mentre” o al massimo il “subito dopo”. Tu, invece, hai deciso di occuparti dei postumi, ti sei preso del tempo. Come mai questa scelta? Quando è nata questa idea?

Vengo da Treviso, una città piuttosto vicina alle aree colpite. Ho un legame affettivo con questi luoghi: ci andavo da piccolo e ci vado anche adesso in vacanza o per una gita. Sapevo che esistevano già dei racconti su Vaia, ma molto concentrati sulla cronaca.
È ovvio che sia importantissima per me, perché molti dei miei progetti partono proprio da un fatto di cronaca, che poi sviluppo. Ma non mi sento in diritto di affrontarla, di andare lì e giudicare quello che è successo, perché è un giudizio quello della fotografia. Ho provato a fare un passo indietro anche questa volta, ma c’è stato soprattutto un accadimento che ha provocato il mio interesse.
Qualche mese dopo la tempesta, circa sei mesi dopo, ho letto su un giornale locale che l’Università di Padova, nello specifico il dipartimento TESAF, avrebbe fatto degli esperimenti per sgomberare i sentieri dai ceppi degli alberi tramite la dinamite. Avevano chiamato “Mister Dinamite”, Danilo Coppe, un massimo esperto di esplosivi nonché la stessa persona che si era occupato della demolizione del Ponte Morandi di Genova. Secondo degli studi dell’università, avevano capito che sarebbe stato il modo più ecologico per sgomberare i boschi e i sentieri. Mi aveva incuriosito molto questo fatto e sono andato lì quel giorno, a Roana, vicino Vicenza, a vedere e fotografare. Sul posto ho conosciuto Raffaele Cavalli, direttore del TESAF, che mi ha parlato di come loro e il dipartimento DAFNAE hanno progetti di ricerca riguardo le conseguenze di Vaia sia in laboratorio che sul campo. Studiano tutti gli aspetti, dal macro al micro. È stato in quel momento che mi si è accesa una lampadina. A me per giunta piace il metodo scientifico: apprezzo avere degli schemi entro cui lavorare ed entro cui sentirmi allo stesso tempo libero di muovermi.

Il libro “There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda, bruno, 2024
(courtesy: Matteo de Mayda)
Il libro “There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda, bruno, 2024
(courtesy: Matteo de Mayda)

Come è diventato qualcosa di concreto?

Il processo è durato 5 anni e, ad essere sincero, non avevo ben chiaro cosa volessi fare. Raffaele Cavalli mi ha invitato a visitare i dipartimenti, sono stati molto generosi con me: mi hanno messo a disposizione diversi strumenti, mi hanno mostrato mappe, ricerche e insetti. Ho cominciato a studiare tutto questo materiale, a confrontarmi con i vari ricercatori e a seguire ognuno di loro. Scattavo foto sia in laboratorio che nei campi di ricerca, che andavano dal Veneto al Friuli e al Trentino.
Un grosso motore per me è stato senza dubbio vincere nel 2021 il grant dell’Italian Sustainability Photo Award: ho avuto la possibilità di accedere a dei fondi che mi hanno permesso di seguire e continuare il progetto con un budget. Il grant è stato anche un’occasione per avere finalmente delle scadenze e mettere nero su bianco quello che volevo fare perché mi era richiesto dall’ISPA.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)
“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)

In There’s no calm after the storm hai deciso di unire le immagini di reportage e di archivio ad immagini scientifiche: quanto è importante avere consapevolezza del macroscopico ma anche del microscopico di quello che è stata Vaia?

Il progetto è fatto di vari linguaggi e, quando ho capito la complessità di questo fenomeno, ho capito anche che le mie immagini non sarebbero state sufficienti a raccontarlo, che era più corretta una narrazione complessa. Non mi piacciono molto le immagini spettacolari o un approccio aggressivo al racconto. Mi piace che il lettore o il pubblico possano approfondire e non fermarsi alla prima immagine o al primo titolo scoppiettante, che attira l’attenzione. L’Università di Padova mi stava mostrando tanto materiale interessante, sia visivamente che a livello di contenuto: fanno ricerca usando dei sistemi che si chiamano LIDAR, ovvero dei sistemi satellitari che indagano il territorio dall’alto, che permettono, ad esempio, di vedere se sono caduti degli alberi in zone che non sono visibili e dunque poi intervenire, attivando le amministrazioni locali e simili, perché dalla caduta degli alberi dipendono frane e valanghe.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)
“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)

Lavorano e fanno ricerca anche sul microscopico, soprattutto sul bostrico tipografo. È l’emergenza attuale più grave rispetto alle conseguenze di Vaia, perché questo parassita si nutre della corteccia degli alberi, prima delle piante a terra poi di quelle in piedi, che sono però fragili perché scosse dalla tempesta. Si chiama “tipografo” perché fai dei disegni molto belli nella corteccia, allo stesso tempo però molto dannosi.

Lavorano e fanno ricerca anche sul microscopico, soprattutto sul bostrico tipografo. È l’emergenza attuale più grave rispetto alle conseguenze di Vaia, perché questo parassita si nutre della corteccia degli alberi, prima delle piante a terra poi di quelle in piedi, che sono però fragili perché scosse dalla tempesta. Si chiama “tipografo” perché fai dei disegni molto belli nella corteccia, allo stesso tempo però molto dannosi.
Il problema principale è che temono che possa creare un danno sei volte più grande di Vaia. Solitamente gli alberi convivono con il bostrico, sanno difendersi dai loro attacchi. Ma sono più fragili, non solo per via della tempesta ma anche perché molti di loro erano stati piantati per fini commerciali e il dove e il come fa tanto. Difatti ora, quando si parla di rimboschimento, ci si chiede se farlo o meno, ma soprattutto come farlo: la natura non mette gli alberi in fila ogni due metri, per questo in alcune zone dove sono stato piantavano alberi di tipo diverso e in modo randomico. Ci sono diverse teorie al riguardo.
Sempre nel microscopico, mi hanno mostrato anche dei microartropodi: in alcune delle zone colpite, i ricercatori dell’Università di Padova raccolgono circa ogni due settimane questi insetti e li portano in laboratorio per analizzarli; da queste analisi capiscono come stanno evolvendo biologicamente i boschi colpiti e il loro stato di salute. Per me la cosa interessante — e su questo c’è un dibattito in atto — è che la tempesta non si sta rivelando un fatto negativo per alcune forme animali: alcuni lupi, ad esempio, hanno trovato riparo e hanno fatto delle cucciolate sotto dei tronchi di alberi abbattuti.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)
“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)

Credi che Vaia si sia fermata a quell’ottobre di sei anni fa o esista in qualche modo ancora oggi?

Per me non si ferma mai: racconto Vaia, ma Vaia è il pretesto per parlare di cambiamento climatico. L’ultima immagine nel libro, per esempio, è una cartolina della Marmolada, da cui è venuto giù un pezzo di ghiaccio un paio di anni fa. Quello non è causato da Vaia, ma dall’innalzamento delle temperature.
Io ho fotografato un momento, che ha un prima e un dopo che non si ferma. Con Vaia identifichiamo una notte, ma ciò che l’ha provocata continua.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)

Io ho fotografato un momento, che ha un prima e un dopo che non si ferma. Con Vaia identifichiamo una notte, ma ciò che l’ha provocata continua.

A sei anni da quanto è successo, e con tutto quello che è successo in questi anni, abbiamo realmente preso consapevolezza del peso della nostra responsabilità?

Non credo. I fenomeni atmosferici estremi che continuano ad accadere sono la dimostrazione che non ci sia un gran livello di consapevolezza. Sta migliorando nelle nuove generazioni, che si attivano sempre di più per porre maggiore attenzione su questo tema. Non ho la sensazione che Vaia nello specifico abbia smosso granché, se non nelle comunità colpite.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)

Tra quegli scatti ce n’è uno di un albero a testa in giù che sembra impiccato, come noi abbiamo impiccato la natura.

Ci sono una o più fotografie che, a tuo avviso, riescono a raccontare bene cosa sono stati per te questo progetto e Vaia?

Una è sicuramente tra le fotografie di una serie di “alberi volanti”. Mi piace che le mie immagini abbiano anche un valore simbolico e tra quegli scatti ce n’è uno di un albero a testa in giù che sembra impiccato, come noi abbiamo impiccato la natura. Spesso ho utilizzato questa foto per promuovere il progetto in vari ambiti.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)

C’è questa corteccia in cui hanno segnato i buchi dove è stato messo l’esplosivo e dei cavi, che spuntano da quei buchi, che servono ad attivare la dinamite. A me richiama sia l’immagine di una natura da rianimare, sia di una natura estremamente invasa dall’uomo.

Un’altra è tra le prime fotografie che ho scattato: ero a Roana e stavano preparando gli alberi per farli esplodere, c’è questa corteccia in cui hanno segnato i buchi dove è stato messo l’esplosivo e dei cavi, che spuntano da quei buchi, che servono ad attivare la dinamite. A me richiama sia l’immagine di una natura da rianimare, sia di una natura estremamente invasa dall’uomo.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)

A Rivamonte Agordino, in provincia di Belluno, c’è questa figura folkloristica che è l’Om Salvarech, ovvero l’uomo selvatico. È un uomo ricoperto di una pianta che si chiama licopodio, un particolare muschio.

L’ultima è legata al desiderio che avevo non solo di raccontare il lato scientifico di Vaia, ma anche quello delle comunità colpite. Non volevo documentare però le case scoperchiate o i negozi distrutti, volevo capire il rapporto tra la comunità e la natura. A Rivamonte Agordino, in provincia di Belluno, c’è questa figura folkloristica che è l’Om Salvarech, ovvero l’uomo selvatico. È un uomo ricoperto di una pianta che si chiama licopodio, un particolare muschio. Quando ho scattato la foto, il vestito era sbiadito e la persona che lo indossava si è scusata, dicendomi che quell’anno non era verde perché rispettavano la presenza del licopodio nel bosco e quando non ce n’è abbastanza, non lo prendono, usando il vestito dell’anno precedente. Mi ha proposto anche di colorarlo, ma ho preferito che rimanesse sbiadito, perché raccontava moltissimo del loro rapporto e del rispetto che hanno per la natura.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)
“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)

Attraverso questo progetto che risposte sei riuscito a darti?

Da un punto di vista personale e professionale, è stato il progetto su cui ho lavorato di più fino ad ora, perché ci sono voluti 5 anni. Mi sono permesso di sbagliare tanto, perché del materiale che c’è sul libro avrò probabilmente prodotto dieci volte di più.
Sono molto più abituato a lavorare con riviste, perciò con lavori assegnati che durano poche giornate o addirittura solo una, dunque non ho tanto modo per approfondire. In questo caso, invece, ho avuto modo e tempo per far arrivare le risposte, perché magari ho cominciato a incuriosirmi ad alcuni temi, perché ho conosciuto delle persone, perché degli amici o qualcuno che ho conosciuto mi ha mandato delle letture e perciò ho esplorato altri aspetti.

Il futuro di Vaia come te lo immagini?

Sono curioso perché ogni volta che parlo del bostrico con le persone, i ricercatori o le comunità sono tutti molto allarmati. Non sanno come fermarlo. Ci sono già stati grandissimi danni anche al mercato del legno, oltre che ai paesaggi e alle comunità stesse. Non ho gli strumenti per capire cosa succederà, però questo parassita è senza dubbio la preoccupazione principale.

“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)
“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)
“There’s no calm after the storm”, di Matteo de Mayda
(courtesy: Matteo de Mayda)
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