Un video mostra il Neon Museum di Las Vegas

Nei primi anni del ‘900, quando la luce elettrica era ormai una realtà diffusa, perlomeno nelle città dell’emisfero occidentale, uscirono fuori, una dopo l’altra, invenzioni che avevano nell’energia elettrica la loro ragione di esistere: «il ventilatore elettrico nel 1891, l’aspirapolvere nel 1901, la lavatrice e il ferro da stiro nel 1909, il tostapane nel 1910, il frigorifero e la lavapiatti nel 1918» scrive il giornalista e saggista Bill Bryson nella sua Breve storia della vita privata, sottolineando come «il consumo di energia elettrica negli Stati Uniti passò dai 79 kilowatt pro capite del 1902 ai 960 del 1929».

È di quello stesso periodo l’invenzione della lampada a neon. Fu il francese Georges Claude a brevettarla, qualche anno dopo la scoperta del neon da parte dei chimici britannici William Ramsay e Morris Travers (quest’ultimo, sorpreso dal meraviglioso colore rosso prodotto dal gas se “eccitato” elettricamente, annotò: «il bagliore di luce cremisi proveniente dal tubo raccontava la sua storia ed era uno spettacolo su cui soffermarsi e non dimenticare mai»).
Qualcosa di simile l’aveva già escogitato l’ingegnere statunitense Daniel McFarlan Moore, che nel 1896 sviluppò delle lampade ad azoto, ottenendo un discreto successo. Claude, tuttavia, aveva a sua disposizione ingenti quantità di neon, ottenuto come gas di scarto nei processi di “liquefazione” dell’aria che erano al centro dell’attività dell’azienda che aveva fondato nel 1902, la Air Liquide (che esiste ancora oggi ed è un colosso industriale multinazionale).
Nel 1910 presentò la sua invenzione al Grand Palais di Parigi, città all’epoca già soprannominata “ville lumiere”, essendo stata una delle prime ad attivare l’illuminazione pubblica a gas, per poi passare all’elettricità. Grazie allo stesso Claude — che venne soprannominato “l’Edison di Parigi” — la capitale francese fu anche la prima metropoli “al neon” del mondo, ma ben presto i neon dilagarono, prima in Europa e poi negli Stati Uniti.

Claude, che durante gli anni della Seconda guerra mondiale sarebbe diventato un collaboratore nazista, fece una fortuna su entrambe le sponde dell’oceano, almeno fino a quando il suo brevetto gli permise di avere il monopolio su questa tecnologia: già dalla fine degli anni ’20, infatti, aprirono numerose aziende rivali, e le insegne al neon si diffusero ancora di più, dalla California (lo showroom losangelino della Packard Motor Car Company fu la prima attività commerciale statunitense ad installarne una) a New York, da Chicago a Las Vegas.
Proprio la città dei casinò si trasformò in pochi anni in una “City of (Neon) Lights”, raggiungendo il suo apice intorno agli anni ’50, prima del declino delle lampade a neon, sostituite da alternative più economiche e di più semplice manutenzione.
Ma la storia della ”Sin City” è talmente legata a quella delle luci al neon da essere sede di un museo, il Neon Museum Las Vegas, appunto, nato nel 1996 per «collezionare, preservare, studiare ed esporre le insegne iconiche di Las Vegas per l’arricchimento educativo, storico, artistico e culturale».

La collezione comprende centinaia di pezzi, alcuni dei quali ancora funzionanti, oltre a documenti, progetti e foto d’epoca.
Di recente il filmmaker Eric Minh Swenson — iper-produttivo regista specializzato in reportage e interviste relative ad arte, design ed eventi culturali — è andato a visitare il museo, mostrandolo in tutto il suo splendore. Letteralmente.

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