Credo di essere ingrassato un pochino. La poltrona mi sta stretta, i braccioli mi stringono i fianchi, fatico a rialzarmi. Sento le gambe molli e il respiro corto, come se la gabbia toracica fosse fatta di piombo, le costole sbarre di ferro che mi schiacciano. Meglio restare seduti. Allungo la mano su uno dei biscottini che ha fatto Sara. Mai piaciuti i biscotti a dire il vero, ma placano l’irrequietezza che mi agita da giorni. Sospiro e sudo, Sara mi passa davanti e estrae un asciugamanino dal grembiule, mi asciuga le tempie, poi mi fissa e tira gli angoli della bocca fino alle orecchie. È il suo nuovo modo di sorridere.

Cerco di ricordare cosa trovavo in lei, il che spiegherebbe come sono finito qui, immobile sulla poltrona, chiuso in casa con questa signora che conosco appena. Ricordo solo una festa, parecchia tequila, musica alta e balli di coppia, era una sagra forse, so che siamo finiti nei cespugli io e lei, e qualche tempo dopo sua madre mi baciava le guance tenendomi per le spalle e con le lacrime agli occhi diceva «Finalmente». Io ero vestito elegante e avevo un anello al dito.

L’anello è ancora lì, ma la mia mano sembra cresciuta attorno a lui, la carne del dito sta per avvolgerlo. Era chiaro che avevo sbagliato qualcosa. Non ero mai stato bravo a scuola, a ragioneria. Non avevo imparato a programmare il mio tempo, ai compiti in classe pensavo solo la sera prima.
Svetlana l’ho conosciuta al mio matrimonio, mentre cercavo di sfuggire agli sguardi a saetta di mio suocero e infilavo la testa sotto al tavolo bar alla ricerca di una bottiglia di qualsiasi tipo. «Qualcosa da bere, signore?». Svetlana era la risposta. Ogni cosa mi aveva convinto. Dalla camicia bianca che pareva stesse per esploderle addosso all’occhiolino che mi aveva fatto. Quanto mi manca. Potessi mandarle un messaggio. Ma dovrei uscire a comprare una ricarica. Dovrei uscire e basta. Ma ho troppa paura. Non voglio mai più entrare in un ospedale dopo che ci sono stato per anni mentre mamma era malata.

Sara canticchia nella zona cucina, un’unica stanza open space tutt’uno col salotto. Basta un movimento della testa e mi vede. Cerco di alzare la schiena. L’odore di burro mi stringe la gola. Sara continua a cucinare, i grassi si stanno depositando anche dentro di me, chiudendomi le arterie, insieme alle narici e ai polmoni. Tossisco, cerco di togliermi di dosso l’odore vaniglia. Sara ripassa davanti a me e si ferma al mio fianco. Inizio a sentire freddo alle estremità. Vorrei che si allontanasse. Ma l’ultima volta che le ho chiesto di lasciarmi solo mi ha appoggiato la teglia del forno calda sulle gambe. Un’ustione lieve, per carità, mi ha subito medicato, togliendomi i pantaloni e mettendomi dei cubetti di ghiaccio sopra. Eppure, sento che ho bisogno di riordinare le idee.

«Vado un attimo in bagno! Non ti muovere!»
Cinguetta, e mi fissa ancora con quel suo nuovo sorriso da orecchio a orecchio.

È la mia occasione. Sono solo per un attimo. Di solito ci mette 10 secondi a stare in bagno. Non credo si lavi nemmeno le mani. Afferro la cornetta più veloce che posso. Tossisco di nuovo. Chiamo la polizia o l’ambulanza?