Bergwerk

Se qualche anno fa per uno dei casi della vita ti ti fossi trovato a lavorare nella zona industriale di Jesi (oggi le possibilità che tu lo faccia, già tenui, si sono ridotte all’osso visto che in un solo anno il numero di disoccupati nella ex-ridente Vallesina è cresciuto dell’8% e tra un po’ i miei compagni di bisbocce adolescenziali si trasformeranno in zombie divora-cervelli e massacra-politicanti e hai voglia a mandare l’esercito quando ti trovi davanti a manipoli di gente incazzata e cresciuta a Verdicchio, che com’è noto rafforza lo spirito, infuoca gli animi e rende immuni al dolore).

Chiusa la parentesi social-etilico-rivoluzionaria…. se ti fossi trovato lì tra i capannoni e le rotatorie spuntate come funghi e le strade vuote, nel 2002-2003 o giù di lì, avresti visto un povero mentecatto appostarsi fuori i cancelli di una fabbrica. Non parlo di Alan Sorrenti ma del sottoscritto, intento a mettere a frutto il corso in Storia della Fotografia appena frequentato all’università—di lì a poco abbandonata—provando invano a rifare con l’occhio del provinciale e circondato dall’ambiente a me più familiare, quel mix tra metalmeccanico e agreste (Mariooo, scenni da quel diaolo de carello e viè qua a damme na mano, comjombero) che ha caratterizzato la valle dagli anni ’70 in poi, la prima vera folgorazione fotografica avuta sulle pagine di un libro: l’opera dei coniugi Becher.

il moodboard della lampada Bergwerk

Ai digiuni di fotografia basti sapere che i Becher erano un’allegra coppia di artisti tedeschi—lui morto qualche anno fa a 75 anni, lei 79enne e ancora nel mondo dei vivi—divenuta celebre per un lavoro di catalogazione fotografica delle vecchie aree industriali che i due portarono avanti praticamente per tutta la vita, fotografando in bianco e nero e con stile assolutamente, quasi roboticamente neutro, torri di raffreddamento, silos, impianti di ogni tipo, utilizzando altissime scale ed altrettanto alti cavalletti in modo da raggiungere il centro esatto della prospettiva.

Considerati tra i più grandi maestri della fotografia di tutti i tempi, i Becher influenzarono e continuano ad influenzare tutta una serie di artisti che lavorano con la fotografia, tanto che quando si parla di scuola tedesca o scuola di Düsseldorf (dove tra l’altro Bernd, il marito, insegnò fino al ’96) si citano sempre Bernd ed Hilla come i fondatori di uno stile, estetico e concettuale, che in realtà si può benissimo dire iniziato con gli esperimenti di fotografia botanica di Karl Blossfeldt (altro tedesco, altro maniaco della catalogazione) degli anni ’20 e proseguito fino a giorni nostri, ispirando non solo fotografi ma anche la pittori, digital artists, musicisti ed ovviamente architetti e designer.

Recentemente una delle loro foto si è addirittura trasformata in un kit per costruirsi da soli una lampada da interni: l’idea è di Francesco Pace e di Francesco Forcellini, di cui ho già parlato recentemente per un altro splendido progetto che li vede coinvolti: Progetto Pronto Intervento.

Partendo proprio dalla silhouette di una delle opere dei Becher, una foto del ’77 di una miniera di Bövinghausen, nei pressi di Dortmund, Pace e Forcellini hanno realizzato una lampada (chiamata Bergwerk, che in tedesco significa appunto miniera) in in polimetilmetacrilato tagliata al laser e componibile a incastro.
Se tenuta in verticale la luce, quasi nascosta all’interno della lampada, è tenue e dall’effetto raccolto—una sorta di lanterna. Quando invece l’oggetto viene posizionato in orizzontale il fascio di luce si allarga e proietta sulla parete dei motivi geometrici che rimandano all’estetica delle foto dei due artisti tedeschi.

Ne avessi avuta una al tempo dei miei esperimenti fotografici forse sarei rimasto a casa e avrei evitato gli strombazzamenti di chi passava sfrecciando per le strade dritte tra i capannoni e gli sguardi tra il sospettoso ed il poliziesco di chi lavorava sui piazzali delle fabbriche e si trovava ‘sto poco più che ventenne fricchettone a inquadrarli col suo obiettivo.

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