Una scorpacciata di arte contemporanea nelle ferias di Madrid

Fino a qualche anno fa a Madrid la settimana dell’arte era sinonimo di ARCO, fiera d’arte contemporanea che ospitava gallerie ed espositori di tutto il mondo, e quà e là in città c’erano alcune piccole fiere alternative che chiamavano a raccolta nomi legati a circuiti underground. 

Nel 2024 Arco c’è ancora — quest’anno la 43esima edizione ha ospitato oltre 1.300 artisti — e le sue cosiddette “sorelle minori” sono cresciute e camminano sole sulle loro gambe. In pieno centro, il Palacio de Cibeles ha ospitato Art Mad dove 36 gallerie spagnole e non hanno rivendicato l’importanza dell’arte emergente.
Tra i nomi che più mi hanno colpita, i “banana man” del taiwanese Lin Shih Yung che porta sulla tela famiglie storpiate dai colori cupi e dai volti gialli, tutti da sbucciare; gli spaventapasseri nostalgici della coreana Gammanzi, il surrealismo inquietante dei ritratti di Yves Decamps, che mixano arte fiamminga e tradizione peruviana, e i mondi immaginari della spagnola Silvia Flechoso nel cui rifacimento della celebre Pietà sbuca una Biancaneve con motoseghe e ammoniaca, e che porta su tela il profilo Instagram di Leonardo da Vinci come fosse un bro qualsiasi con il suo quotidiano fatto di amici artisti e lauti (ultimi) cenoni.

L’argentina Coco Escribano, lo spagnolo Pablo I Prada e l’italo-argentino Fabro Tranchida sono stati per me gli incontri più particolari della JUSTMAD 2024, fiera-trampolino di giovani artisti/e, che si definisce “spazio di (ri)scoperta”.
Ritratti naïf di eroine anonime che rivendicano il loro ruolo per la prima, primi piani sinistri con incisivi sanguinanti su sfondo rosso e nero per il secondo e ricordi di infanzia in cui la scoperta dell’omosessualità emerge tra libri di Pasolini e volti di Maradona con aureola per Fabro, che porta sulla tela scene da spogliatoio e momenti di riposo della working class.

La mia feria de arte preferita rimane Hybrid Art Fair, ospitata da un hotel hipster del quartiere ormai inflazionatissimo di Malasaña (“me gustas Malasaña, me gustas tu”, sì proprio quella) in cui ogni stanza viene invasa da una galleria che propone al pubblico nomi semi-noti a prezzi accessibili (come recita il manifesto).
Girovagando tra letti sfatti e frugando tra docce e armadi dell’hotel mi sono imbattuta nell’installazione interattiva I panni sporchi non si lavano in casa di Mia de Diego, che ha proposto al pubblico una riflessione sulla violenza di genere e su quelle azioni ormai normalizzate che noi donne facciamo ogni giorno per non esporci ai rischi legati a camminare sole di notte o avere un ex geloso.
Tra femminismo e critica sociale, molte le opere che scomodano mostri mitologici come i King Kong buoni di Javier Sáez Castán che chiede al pubblico «non hai mai provato nostalgia per un posto dove non sei mai stato? Se la risposta è sì, entra pure».

I’m all lost in the supermarket / I can no longer shop happily / I came in here for that special offer / A guaranteed personality cantavano i Clash, e non posso fare a meno di pensare come da un lato il reparto carne fresca, con le sue giovani promesse under 30, miri alla notorietà a suon di effetti shock più vicini alla viralità social, dall’altro il reparto surgelati dei nomi più consolidati si affidi alla provocazione, catturando hashtag da scongelare in vista di questa imperdibile semana del arte.

Mia de Diego
(foto: Simona Spinola)
Mia de Diego
(foto: Simona Spinola)
Javier Sáez Castán
(foto: Simona Spinola)
Un messaggio

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