50 storie e ritratti della Liberazione: intervista a Ivan Canu

A marzo è uscito L’Italia della Liberazione in 50 ritratti scritto da Paolo Mieli e Francesco Cundari e illustrato da Ivan Canu, per le edizioni Centauria.
Il libro completa idealmente una trilogia cominciata nel 2018 con La storia del Comunismo in 50 ritratti e proseguita poi nel 2020 con L’Italia di Mussolini in 50 ritratti: un insieme di 150 ritratti che raccontano una fetta importante di storia italiana, e non soltanto. 

Avevo pensato di fargli una piccola intervista sul suo libro e sul suo lavoro ma Ivan è un illustratore coltissimo ed è un fiume in piena di ricordi, di citazioni, di aneddoti. Ne è venuta fuori la mia più bella intervista degli ultimi anni (e non per merito mio) dove Ivan parla di mille cose interessantissime: dal suo lavoro nella moda alla sua esperienza con Fèrenc Pintér, citando nel frattempo Igor’ Stravinskij e Milton Glaser. Insomma, non mi aspettavo che dalle mie domande, anche un po’ banali, sortisse una passeggiata così bella e così ricca tra illustrazione, letteratura, musica classica. 


Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, Centauria, 2021

I tuoi ritratti compaiono regolarmente su l’Espresso e altri magazine, ma nei ritratti di questi tre libri ho notato un approccio completamente diverso rispetto alle riviste. Ce lo vuoi raccontare?

Ognuno di questi libri ha una sua finitezza, per il tema portante (il Comunismo, il Fascismo, la Liberazione) e per l’ampiezza temporale che coprono. Ho raccolto l’immaginario derivato da studi, letture, film visti, referenze di ogni livello, letterarie, storiche, dalla cultura universitaria a quella grafica, pop, di massa, fino ai ricordi d’infanzia. Ogni personaggio poteva dire qualcosa di più delle fotografie reperibili ovunque, raccontare una storia che corresse parallela alle biografie che Paolo Mieli e Francesco Cundari stavano nel frattempo scrivendo e che io avrei letto solo alla fine. Il libro sul Comunismo è stato un eccellente palcoscenico di sperimentazione, divertimento, azzardo. 
È in quel libro che ho cercato una nuova sintesi grafica, diventata la formula della serie. 

Dopo il successo un po’ inatteso del libro, l’editore Giulio Lattanzi e il publisher Balthazar Pagani hanno ragionato con me e con Mieli sulla possibilità di una Storia d’Italia, sul modello di quella a fumetti di Biagi e dell’opera di Montanelli e Cervi, seguendo la formula dei 50 ritratti. 
Nel frattempo, ho affinato il segno realizzando per Salani Very Italiani, scritto da Rossana e Francesco Maletto Cazzullo, su cui Mariagrazia Mazzitelli mi ha lasciato completa libertà di progettazione. Quel passaggio, nel 2019, è stato importante perché oltre ad un tempo più rilassato, ho potuto raccontare anche personaggi contemporanei insieme a figure del passato storico, letterario, artistico, e riferirmi a loro con azzardi diacronici, ritraendo Boccaccio come un cantante trap, Machiavelli come il Padrino o Bebe Vio come una cyber-eroina alla Alita. La libertà e il divertimento scaturiti da questo libro, mi hanno suggerito un approccio radicale per quello che è stato il secondo volume di Mieli e Cundari con Centauria, L’Italia di Mussolini.

Paolo Mieli, Ivan Canu (illustrazioni), “La Storia del Comunismo in 50 ritratti”, Centauria, 2018
Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), “L’Italia di Mussolini in 50 ritratti”, Centauria, 2020

Quell’anno, il 2020, di libri sul fascismo ne sono usciti almeno altri 4 e tutti quasi in contemporanea (per via del ritardo dovuto allo scoppio della pandemia). Il tema è uno dei più ostici e complessi, soprattutto da rappresentare, non volendo fare né il caricaturista (non è il mio lavoro) né del moralismo o tantomeno del revisionismo. Qui mi ha proprio giovato il gusto per la citazione, dell’asimmetria temporale in cui ho collocato gerarchi degli anni ’30 in contesti anacronistici, spesso anche solo per associazione d’idee, grotteschi, spiazzanti. È stato un lavoro difficile, che ho seguito in rigoroso ordine alfabetico, dalla A di Agnelli, il senatore capostipite della dinastia, rappresentato in un manifesto esaltante l’automobile e il mito futurista della velocità, alla Z di Zangrandi, giornalista antifascista, deportato, testimone e narratore del dramma dei campi di concentramento e dei viaggi sui vagoni piombati, che anche dall’Italia arrivarono fino ad Auschwitz.

Più spesso che nei precedenti libri, ho attinto alla grafica e alle riviste dell’epoca e ho disegnato finte copertine o manifesti cinematografici, come Bottai che finisce in Beau Geste con posa alla Gary Cooper, oppure il generale De Bono nella parata dei Fori Imperiali, sopra un cavalluccio a ruote nella cartolina del dopolavoro fascista. Farinacci m’è parso perfetto per omaggiare Bonvi e il suo Galeazzo Musolesi e Gentile, da ministro dell’Istruzione, è il balilla tutto libro e moschetto della propaganda. È il volume più denso di citazioni, alcune criptate, altre più palesi e riconoscibili. Il gusto, per me, è che la citazione può essere colta (e raccolta) o popolare, immediata o nascosta, correre parallela alla riconoscibilità del personaggio oppure restare ignorata, senza che però il ritratto perda la sua efficacia. C’è un racconto che può essere scoperto a più livelli e questo è il gioco a cui il lettore è invitato.

Gino Bartali
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)
Italo Calvino
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)
Alcide De Gasperi
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)

L’elemento ludico è poi palese in due moduli ricorrenti nei tre libri: una carta dei tarocchi e un gioco della settimana enigmistica. Con il terzo volume, più ottimista e brillante per temi e personaggi, si sono moltiplicate le occasioni di eccentricità, le citazioni grafiche o pittoriche, i riferimenti ai miei gusti pop, nel fumetto, nell’animazione, nella letteratura di genere. Così per Bartali c’è Duchamp, Lelio Basso è un collage Bauhaus, Calvino levita in un paesaggio di Moebius, De Gasperi è santificato in una vetrata, De Sica in un momento d’ozio, è dipinto alla Guttuso. E via così, con i riferimenti al signor Bonaventura, ai poster degli anni ’20, ai Peanuts, alla grafica sovietica, a quella delle riviste militanti degli anni ’80.
C’è un gioco dell’oca per far trovare a Saragat la casella del Quirinale e quello del “riempi lo spazio con il colore” per svelare la faccia di Mortati (che per essere stato un nobilissimo giurista ma misconosciuto ai più, si prestava perfettamente al gioco, come lo era stato il comunista Zdanov per “unisci i puntini”).

È una domanda scontata (e molto da bambini), ma te la farò lo stesso: c’è un personaggio che hai amato ritrarre in particolare in questa tua trilogia? E uno che invece hai detestato?

In ogni libro ce ne sono stati, dall’una e dall’altra parte. Mi aiuta un approccio non “di pancia” al ritratto, ma sempre di ragionamento perché l’esito sia il migliore possibile.
Per il comunismo, diversi che ancora oggi guardo con piacere, come il Lenin suprematista, la Ibarruri cubista, il Che alla Glaser. Mentre m’è riuscito poco Visconti, perché spesso sui personaggi che amiamo riversiamo troppe aspettative. Non ho lavorato volentieri su Mao, che trovo il più debole di quel libro.

Nilde Iotti
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)

Per il fascismo, mi son ripromesso di evitare facili cadute sul disprezzo o il macabro superfluo. E di non umiliare le figure femminili: già la Storia ha dato il suo responso e non occorre il mio irrilevante parere. Quindi, ho scelto per ognuna un riferimento pittorico forte: Rachele, è una madre dolente di Achille Funi; la Ferida è nel tarocco degli amanti, col putto mitragliere che rimanda alla sua tragica fine; la Duranti è in un poster di Dudovich, col seno in bella evidenza perché con la Calamai si contesero il primato di averlo mostrato per prime in un film; la Petacci è in un Casorati; la Sarfatti in un bozzetto alla Gruau. La mia preferita è Edda Mussolini Ciano, per la quale ho ricostruito la locandina di un melodramma, come avrebbe potuto disegnarla Mucha per la Bernhardt. È stato ovviamente difficile rappresentare Benito Mussolini, ne ho fatte 2 versioni (quella scartata da Mieli è la mia preferita, un po’ estrema nello sberleffo machista), mi piace graficamente l’idea della lampadina fulminata al motto di “Duce tu sei la luce” che si tronca nel finale: è un ricordo delle canzoni che mia zia cantava da piccoli, che erano quelle della sua infanzia di Giovane Italiana. Lei era molto stonata, quindi l’effetto era involontariamente comicissimo.
Non sono soddisfatto di Pirandello (di cui preferisco la versione deperiana per Salani) e di Maccari.

Dell’ultimo libro, L’Italia della Liberazione, mi piacciono De Sica, la Magnani, la Lollobrigida, Rossellini. Forse il meno riuscito è il ritratto della Iotti e Spinelli non ha il guizzo che avevo pensato, citando il finale di Cuore di vetro di Herzog.

So che un tuo grande modello è stato Fèrenc Pintér che hai conosciuto e frequentato a lungo. 
Ci racconti qualcosa del tuo rapporto con lui?

Con Pintér ho lavorato 9 anni, dal 1998 al 2007, fino a pochi mesi prima che morisse. L’ho conosciuto nel ’97 quando stavo rinnovando la grafica della rivista Hytrio, di cui ero un giovane e poco esperto art director, entusiasta di aver introdotto le copertine illustrate. Gli telefonai (il numero era in elenco) e mi ricevette a casa sua, per una chiacchierata informale. Da quel momento, ogni 6 mesi circa, 2 volte l’anno, gli comunicavo il tema della copertina, mi mandava i bozzetti via fax (che conservo, sbiaditi nella carta chimica) e poi ritiravo a casa sua bozze e varianti, fra le quali sceglievo la versione finale.

Non l’ho mai visto dipingere, perché era modesto e poco incline all’esibizione. Non teneva corsi (pur avendo firmato un manuale di disegno che possiedo anche io, in una edizione ormai da collezione), non faceva mostre. Era schivo, un po’ burbero, per nulla frequentatore di gallerie o incontri pubblici, soprattutto a tema illustrazione. In quelle occasioni, mi offriva un caffè con la moka, parlavamo a lungo nel suo studio, lui con la pipa quasi sempre spenta, delle cose che avevamo capito piacere a entrambi: il cinema, la letteratura (in quegli anni era esploso il fenomeno Màrai, che lui conosceva bene e di cui aveva titoli in ungherese ancora inediti in Italia), la grafica dagli anni ’20 ai ’70, la storia del ‘900. Io ci infilavo sempre domande sulla sua formazione grafica a Budapest, prima del ’56, le sue opinioni politiche e religiose, il suo lavoro in Mondadori.

Pintér mi disse che la cultura doveva esserci, i riferimenti, i gusti, le citazioni. Ma dovevano diventare parte integrante della propria visione, senza stonare nel disegno, senza esibirsi a scapito della lettura.

Aveva cassetti straripanti disegni, in ogni stanza, migliaia di disegni come non ne ho mai visti se non negli archivi dei giornali o nelle gallerie più fornite. Ogni tanto me ne mostrava alcuni e ho visto nascere 3 libri, dagli schizzi preparatori alle tavole finali, con varianti scartate: Macbeth, Pinocchio e il suo libro antologico. Mi parlava dei difetti della sue illustrazioni (che io proprio non vedevo), delle modifiche che lui faceva a copertine e tavole fatte decenni prima, solo perché una mano o un dettaglio dei capelli o un’ombra gli davano noia. Mi diceva che per via della velocità che il lavoro in Mondadori gli imponeva, aveva dovuto spesso “tirare via” disegni che con calma, in quegli anni in cui era un pacifico pensionato, poteva correggere. Rifaceva spesso disegni (soprattutto le celebri copertine di Maigret) per committenti privati, in grande formato. Gli chiedevo se padroneggiasse varie tecniche e mi disse che no, lui usava di preferenza le tempere e la china, alcuni pennelli che tormentava e tagliuzzava per ottenere gli effetti desiderati. Niente acrilici, olio o altro. Nessuna carta particolare, bastava fosse buona.

Guglielmo Giannini
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)

Una volta, dopo alcuni anni che ci frequentavamo, gli portai il mio portfolio e gli chiesi, con molto imbarazzo, un consiglio. Lo guardò con molta attenzione e rapidamente. Mi disse che secondo lui ero bravo, non avevo bisogno di consigli. Che se mi piaceva usare l’acrilico, che usassi quello e lo piegassi alle mie esigenze, perché una tecnica valeva l’altra, se si otteneva di rappresentare quello che si aveva chiaro in testa. Mi disse che la cultura doveva esserci, i riferimenti, i gusti, le citazioni. Ma dovevano diventare parte integrante della propria visione, senza stonare nel disegno, senza esibirsi a scapito della lettura. Come lui usava il cinema come referenza principale delle sue illustrazioni, senza che nessuno avesse da dire: eh, facile, quelle sono le foto di Gino Cervi oppure quello è il Macbeth di Polanski. Mi disse solo: se lo accetta, le consiglio di essere molto rigoroso nelle citazioni e nelle ricerche storiche, di ambiente, di contesto per i suoi personaggi. E mi indicò la copertina che avevo fatto per La Metamorfosi di Kafka, in cui la donna di servizio sta spazzando la stanza di Joseph K. e lui è sotto il letto, ormai alla fine della sua vita. La composizione, mi disse, è molto efficace e dice tutto quello che ci serve sapere. Ma le scarpe della donna sono sbagliate: sono un cliché delle scarpe di Cenerentola, mentre lei dovrebbe indossare degli stivaletti bassi o degli scarponcini tipici delle donne di Praga, popolane, di fine ottocento-primi del novecento. Sono i dettagli che poi restano impressi.

Un mese prima che morisse, sfiancato dal cancro, ero andato a trovarlo e a parlare un po’ di cose leggere: mi raccontò un episodio della sua giovinezza a Budapest, quando la polizia comunista entrò in casa a perquisire le stanze e lui, ragazzino espulso dalla scuola d’arte applicata, si era messo di traverso e si era beccato gli sberleffi degli agenti, che erano lì solo per intimidire e non per trovare nulla di che. Poi, la famiglia Pintér se ne sarebbe andata definitivamente in Italia, in treno. Aveva dei ricordi così vividi quando raccontava della sua vita, che ogni volta gli chiedevo se avrebbe gradito di raccontarsi in un libro biografico, lui che ne leggeva così tanti. E invariabilmente mi rispose, allora come le altre volte: a chi vuole che interessi, sono cose passate. Quando me ne sarò andato, anche loro non avranno più testimoni. E se ne andò, infatti, nel febbraio di quell’anno. Con modestia, in silenzio, con un trafiletto sul giornale a ricordare il gigante che tutti chiamavano “l’illustratore perfetto”.

Che rapporto hai in generale con i modelli e, da formatore, che consigli daresti, rispetto ai modelli, a chi si avvicina adesso alla professione di illustratore?

Vittorio De Sica
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)

Sono tali quelli che modellano il nostro immaginario, lo tessono, lo riempiono di senso e ci stimolano a seguirne le tracce, i percorsi, a tradirli usandoli. A rubarne la sostanza. In questo senso, mi piace pensare a Stravinskij, che è stato uno dei più geniali “ladri” del ‘900. La sua musica è fitta di citazioni, omaggi, furti fatti con una tale consapevolezza, leggerezza e senso della sintesi finale, che alla fine il tocco strawinskiano è unico, una firma.

La copia è la fase iniziale di questo percorso, copisti sono stati tutti gli artisti, copie sono le statue romane da quelle greche (grazie alle quali conosciamo un po’ più di arte greca, per derivazione), copie le architetture, gli arazzi, i dipinti rinascimentali e copie si facevano a ritmi forsennati nelle botteghe, da Cimabue con Giotto in avanti. Quella della copia è una pratica che aguzza l’occhio, allena la mano, affina le tecniche e poi sfocia nel tocco originale, nello scarto in avanti o di lato e consente ad un artista di emergere e crearsi il suo linguaggio.

Se si parla di linguaggio, si parla di dizionario: chi ha poche parole, non ha una conversazione molto interessante e di conseguenza esprime male quello che ha in testa. Chi ha molte parole, può scegliere come combinarle, ha un tono, uno stile. La sintesi del primo è una necessità, quella del secondo è una scelta. Machiavelli, che pare fosse molto sboccato nella conversazione usuale, diceva: l’ignorante usa le volgarità perché non ha altro modo di esprimersi, l’uomo colto le usa perché le può scegliere. È quindi un fatto di consapevolezza. Nella musica, ad esempio, i compositori minimalisti come Glass, Reich, Pärt, Einaudi, usano moduli ricorrenti e un fraseggio limitato e ripetitivo come sintesi estrema di un percorso che comunque vada, ha anche le orchestre monumentali di Mahler e Strauss alle spalle come i moduli del canto gregoriano.

Chi ha poche parole, non ha una conversazione molto interessante e di conseguenza esprime male quello che ha in testa. Chi ha molte parole, può scegliere come combinarle, ha un tono, uno stile. La sintesi del primo è una necessità, quella del secondo è una scelta.

Così per l’illustrazione, il minimalismo e il concettuale, che hanno suggerito il linguaggio editoriale degli anni 2000, nel loro miglior esito sono frutto di una sintesi laboriosa, progressiva, colta ed efficace. Noma Bar e Pablo Amargo, due diversi protagonisti dello stile concettuale e dell’uso dello spazio negativo, sono entrambi due studiosi della realtà che li circonda, curiosi di ogni dettaglio che ispiri loro un “doppio senso”, di forme ordinarie da cui emerga un senso straordinario. C’è lo studio dietro, una costruzione quotidiana di un vocabolario aggiornato, una disciplina formale che non viene mai meno e si applica al più semplice dei disegni come al più elaborato dei libri. Consapevoli che nessuno nelle arti applicate inventa nulla, ma che ancora si possono trovare variazioni sul tema e declinazioni stilistiche stimolanti, interessanti, differenti dall’usuale se non originali o geniali: questo suggerisco, che non ci si limiti a seguire una corrente che va di moda, uno stile che ha successo, imitandolo formalmente senza appropriarsene nella sostanza.
E poi: libertà mai distinta da responsabilità. Non esiste che qualcuno usi moduli appartenenti a qualcun altro, solo perché non lo conosce o non ha studiato abbastanza. L’ignoranza, non solo nella giurisprudenza, non ha mai scusanti.

Da 12 anni dirigi, insieme a Giacomo Benelli, il Mimaster Illustrazione, un importante master in editoria che si tiene a Milano.
Ogni anno incontri molti ragazzi che condividono, immagino, il sogno che avevi alla loro età. In che cosa li vedi diversi da come eri tu?

Sandro Pertini
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)

Intanto, io non sognavo di diventare illustratore a 20 anni. A quell’età, ero studente alla facoltà di Lettere di Firenze e seguivo i corsi di letteratura, storia del teatro e del cinema e volevo diventare uno scrittore, un saggista e per mantenermi, un giornalista di spettacolo, recensire libri, balletti, film. Ma disegnavo da sempre, da ragazzino mi mettevo davanti alla televisione col fermo immagine del videoregistratore a copiare i cartoni giapponesi che sono stati la mia cultura di base, dopo Disney, Il Corriere dei Piccoli e poi Lanciostory, Skorpio, Zagor.
A casa mia la cultura dell’immagine e dei libri ha sempre avuto ampio sfogo, anche se forse un po’ disordinato. Giravano ad esempio giornali come Il Male, Frigidaire, Eureka, Linus molto prima che capissi qualcosa dei contenuti che i fumetti veicolavano, la violenza di Zanardi, le storie sulla droga, il sesso di Crepax, la violenza in certi fumetti sudamericani, i riferimenti politici dell’Eternauta, Mafalda. Stimoli che sono diventati poi il mio nutrimento da adulto, quando di tutto questo ho potuto abusare per le mie illustrazioni.

Dopo essermi laureato, nel vuoto della gastrite ansiosa e delle aspettative, la scelta di andare a seguire un corso estivo in Umbria con Angese e Vauro, ospiti professionisti come Luca Raffaelli, Jacopo Fo e Cinzia Leone, mi ha fatto conoscere i Simpson e la voglia di approfondire il talento nel disegno. Quindi, Milano è stata la tappa fondamentale, dove tutto succedeva. Ho seguito anche io corsi pomeridiani o serali (perché ho iniziato a lavorare a Hystrio dopo un anno che ero lì e a fare vita di redazione abbastanza costante), soprattutto ho conosciuto e frequentato altri illustratori, molto più esperti di me, come Gianni De Conno, Libero Gozzini, Michel Fuzellier. Con loro, ho partecipato anche alle attività dell’Associazione Illustratori, per un triennio di direttivo. Questo del collaborare, vivere una vita di relazioni, contatti, stimoli reciproci, progettare continuamente anche cose che non vedranno la luce, è il clima fertile che suggeriamo al Mimaster.

Sfatiamo il luogo comune culturale che l’illustrazione sia un mestiere solitario, perché invece è un lavoro di comunicazione, che si fa da soli solo nella parte esecutiva, del disegno in sé o nelle fasi complesse del progetto editoriale che ci riguarda. Per il resto, è un lavoro di contatto, di suggestioni, suggerimenti, imitazioni. Per chi inizia, questo è un tempo più dinamico e ricco di quando ho cominciato io, quando ancora tutto era analogico, un portfolio dovevamo stamparlo, si produceva carta a quintali, se ne buttava via altrettanta, si spedivano buste affrancate in tutto il mondo, spendendo tantissimo anche quando si guadagnava poco. Il digitale da un lato ma soprattutto il cambiamento epocale determinato da internet, dal web prima e dai social poi, hanno spalancato le porte di un mercato mondiale, stimolante, ricchissimo di sollecitazioni.

Sfatiamo il luogo comune culturale che l’illustrazione sia un mestiere solitario, perché invece è un lavoro di comunicazione, che si fa da soli solo nella parte esecutiva, del disegno in sé o nelle fasi complesse del progetto editoriale che ci riguarda. Per il resto, è un lavoro di contatto, di suggestioni, suggerimenti, imitazioni.

Il difetto potrebbe essere che l’eccesso, in tutto, porta a confondere le idee e una generalizzata ansia di non emergere. La “visibilità” con cui alcuni editori pensano di compensare i ridicoli budget a disposizione per progetti velleitari, oggi la offre un decente profilo Instagram collegato ad altri social, ad una spigliatezza nel fare video e tutorial che, uniti a buona capacità di disegno, progettazione, magari pure argomenti e temi interessanti, possono fare molto di più di un piccolo o medio editore con un’idea del mercato scadente e sorpassata.

Tu — se non sbaglio — prima di dedicarti all’illustrazione hai lavorato nella moda. Cosa facevi? E quando ti sei avvicinato all’illustrazione editoriale?

Per 7 anni, nel decennio dei miei 30 anni, non lavoravo abbastanza nell’editoria e non riuscivo ad emergere. Avevo chiuso l’esperienza con il teatro e la rivista, non volevo più avere a che fare con quello che era stato l’obiettivo della mia vita professionale sin da quando ero al liceo.
Ero deluso, frustrato. Amici più giovani di me, come Emiliano Ponzi, avevano un obiettivo forte e lo perseguivano con costanza e risultati già ragguardevoli. Io mi vedevo in un impasse. Allora fu proprio Ponzi che mi suggerì un suo precedente cliente, un consulente di moda italo-americano, che cercava un collaboratore fisso che gli disegnasse i tecnici (ovvero i disegni precisi e dettagliati non artistici dei capi di una collezione), i mood-board delle stagioni (quindi, le tendenze dei colori, dei tessuti e il tema portante, creativo, di ogni collezione). Premesso che non sapevo nulla di moda, di disegno sartoriale, tecnico, vestiti o tendenze. Ma avevo bisogno di lavoro, soprattutto di continuità e di una pausa da tutto il resto per definire una nuova identità. Sono sempre stato uno curioso, una spugna di ogni sollecitazione, perciò nonostante anche io abbia vissuto la scena di Anne Hathaway davanti alle due cinture quando Meryl Streep/Miranda le fa la lezione su cosa sia il pronto-moda e cosa lei creda essere l’originalità nel vestire, sono entrato man mano in quel mondo così ossessivo, veloce, disumano, performativo.

Gina Lollobrigida
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)

Due volte l’anno, per un mese circa, vivevamo in un tunnel di esagitazione, iperventilazione, stress, aspettative, delusioni, disperazione, isteria. Tutto per una presentazione di 30 minuti del consulente ai suoi clienti. Da cui lui sosteneva dipendesse la sua vita, quella del suo cane, il mutuo della casa di Castiglioncello, il leasing dell’auto e dello studio in Porta Romana. E chiaramente, il mio micragnoso affitto di una stanza.
Per qualche anno, abbiamo studiato le collezioni di alcuni marchi molto prestigiosi nell’alta moda, soprattutto veneti e di filati e maglieria famosi nel mondo. Quella è stata la mia seconda genesi: ho imparato così tanto in rapidità, idea-realizzazione, aspettative, progettualità, creatività spiccia e meditata, ricerca di fonti e referenze, studio di colore, di forme, di design. È stato l’incubo di mesi ma anche la rinascita professionale, quando poi negli ultimi due anni già avevo aperto il master e ormai anche il capitolo moda si era per me esaurito. L’editoriale (a parte i libri e la scolastica, che ho sempre fatto) è venuto a quel punto più rapidamente, con le collaborazioni con Adriano Attus prima, cui si è aggiunto poi Stefano Cipolla, la Repubblica, l’Espresso e con la scelta di un agente americano, la collaborazione con testate internazionali.

La rapidità e l’efficienza che l’editoriale richiede, il rispetto delle scadenze, l’efficacia immediata del lavoro, sono tutte caratteristiche che ho mutuato dalla moda. Il multitasking è una qualità benedetta se si fa questo lavoro e si vuol durare oltre il tempo di una stagione.

Tornando ai tuoi ritratti, una cosa che mi incuriosisce molto è la tua palette. Usi sempre pochissimi colori: come li scegli?

In realtà ne uso tanti, ma mai tutti insieme. È una lezione che sia Pintér sia De Conno mi hanno suggerito, quello della scelta consapevole e mirata del colore come risolutore di forme.
Negli anni, così come ho cambiato tecniche e gusti, ho studiato affinché il colore mi corrispondesse senza timidezza o irresolutezza. Molti studenti e pure qualche illustratore, hanno un rapporto poco risolto con il colore, ovvero dal bozzetto monocromatico all’esecutivo temono di perdere efficacia, si spaventano o intimidiscono. Anche qui mi viene incontro lo studio: mostre, film, fumetti, cartoni animati, illustrazioni, fotografia. Tanto giova perché uno si crei una sua educazione cromatica. Casualmente, tutti si vestono di nero e di grigio. Usando il blu, il verde, il marrone come varianti. Ma saper portare un rosso con un tono di blu o dove sta bene il verde rispetto al giallo e al viola, è frutto di cultura e di abitudine a guardare oltre l’ovvietà.

Molti studenti e pure qualche illustratore, hanno un rapporto poco risolto con il colore, ovvero dal bozzetto monocromatico all’esecutivo temono di perdere efficacia, si spaventano o intimidiscono.

Lo stesso avviene nell’illustrazione. Se io voglio dare una personalità ad un’illustrazione che racconti qualcosa di differente dal reale, mi posso rivolgere a diverse fonti di ispirazione. A me piace ragionare per contrasti e contaminazioni. Quindi, un ritratto contemporaneo, lo vedo sui colori di Czeschka, di Mattioli, di Cambellotti. Un ritratto storico, magari di un personaggio dei secoli passati, lo vedo su Glaser, Moebius, Alcorn. Faccio sempre molte varianti di colore per ogni illustrazione, ho un archivio molto ampio e ordinato di riferimenti, palette, di autori e opere, di diverse provenienze. Io non amo fotografare in vacanza, non c’è nulla che trovi più inutile di fare le foto da turista, perché so che non le riguardo, non ho un’attitudine nostalgica. Ma fotografo cose che penso mi possano tornare utili e che archiviate, userò in un progetto o come riferimenti. Spesso così mi è capitato di ovviare a Google e alla banalità delle proposte standard o delle banche immagini, attingendo a scatti più personali.

Come nasce e come funziona la tua collaborazione con Paolo Mieli? Scegliete insieme i personaggi? Ricevi delle indicazioni da parte sua?

Palmiro Togliatti
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)

Sul finire del 2017 mi ha chiamato Balthazar Pagani, che conosceva il mio lavoro di ritrattista per Il Sole 24 Ore e altri giornali e mi ha proposto di illustrare un progetto di 50 ritratti di protagonisti della storia del Comunismo, che Paolo Mieli avrebbe scritto sulla base del suo spettacolo Era d’Ottobre, in cui aveva ripercorso i 100 anni del Comunismo ed era stato molto apprezzato sin dall’esordio al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Il riferimento iniziale era la mia abitudine di caratterizzare i personaggi ritratti con elementi della loro opera, della storia, del contesto in cui vivono e di esaltarli con colori poco usuali. A Mieli il mio stile era piaciuto, quindi ho realizzato i primi 3 o 4 ritratti del libro per definire — a me stesso prima che all’editore — una linea narrativa. L’approvazione è stata unanime, i tempi di lavorazione molto ridotti: 50 ritratti in 50 giorni, cui aggiungere la copertina e il ritratto di Mieli per la quarta.

Verso la fine del lavoro, quando mi mancava forse una decina di ritratti, l’editore ha organizzato un incontro con i librai per gli ordinativi del libro al Laboratorio Formentini di Milano, con alcuni ritratti stampati in grandi dimensioni. In quell’occasione ho incontrato Mieli e abbiamo chiacchierato un po’ e mi ha detto che ogni volta che riceveva la serie di ritratti che man mano chiudevo e spedivo all’editore, restava sbalordito da quanto ricco fosse il racconto interno e che corresse in parallelo con quello che lui scriveva. A quel punto, ha accolto l’idea che io fossi autonomo nelle scelte, di venir stupito e divertito dalle mie scelte e che i nostri fossero percorsi differenti, uniti per creare un libro diverso da ogni altro.

Una curiosità: quando ho fatto il primo ritratto di Mieli, seduto in posa pinteriana, ho deciso che sulla suola ci sarebbe stato un simbolo del comunismo (la stella rossa) e che la sedia fosse quella chiamata “Internazionale”, usata nei dibattiti. A Mieli il ritratto è piaciuto tanto che ne ha fatto fare una copia formato quadro, che tiene in casa sua.
Quando abbiamo iniziato il libro sul fascismo avevo pensato ad una nuova serie: sarebbe stato il viso di Mieli ispirato alle serigrafie di Warhol, ogni volta lo stesso eppure con i diversi colori scelti per la copertina. Il progetto potrebbe contare diversi volumi, quindi alla fine ci sarebbe stata una serie pop di Mieli. Avevo già ragionato sulle mostre future, i poster, la comunicazione. Mieli lo approvò e non ci pensai più.

Il ritratto di Paolo Mieli
(© Ivan Canu)

Dopo qualche tempo, Pagani mi dice che Mieli chiedeva che ci fosse lo stesso ritratto del Comunismo, con un ragionevole adattamento, perché era molto affezionato a quell’immagine. Da una deviazione, un’opportunità. Ho deciso che quindi il ritratto sarà sempre lui, seduto ogni volta su una sedia diversa, appartenente all’epoca e al design di riferimento: la sedia per il fascismo è la Poltrona Stazione Marittima di Luigi Vietti, del 1933 e sulla suola c’è un fascio stilizzato, quella della Liberazione è un modello di Paolo Buffa del 1950, sulla suola c’è la ruota dentata con stella e foglie della Repubblica Italiana.
I colori van di conseguenza con le cromie di copertina, di solito non più di 4. È un divertimento, la ragione per cui si fa con piacere questo lavoro: la consapevolezza che possiamo comunicare quel piacere che proviamo progettando, disegnando, immaginando. Perché non abbiamo grandi responsabilità sociali, non siamo educatori, non siamo medici, non salviamo vite umane e possiamo passare appena notati, come l’ombra nelle colline N’Gong di cui scrive Karen Blixen, sperando che un albero ne proietti una che le somigli.

Come di consueto, ho lasciato per ultima la domanda sui progetti futuri, ma nel tuo caso la faccio tripla: a che progetto lavori al momento? Ai libri per bambini hai mai pensato? 
E infine: Ma noi, quand’è che facciamo un libro insieme?

Pietro Nenni
tavola tratta da “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, di Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), Centauria, 2021
(© Ivan Canu)

Sto lavorando ad un libro nuovo per Centauria, in cui scrivo e disegno, progettandolo anche nel design (pur con i vincoli editoriali a cui tengo molto). È la biografia di un personaggio straordinario per vari aspetti, la cui vita coincide con un secolo e nella quale entrano episodi storici, personaggi, movimenti artistici, letterari, musicali di primo piano. È una nuova sfida, che spero avrà buona accoglienza quando uscirà, in estate, a rallegrare un periodo davvero faticoso della vita di tutti.

Ho scritto storie per bambini, pubblicate i Giappone e in Corea e illustrate da Maria Sole Macchia, amica e collega da quando vivo a Milano. Ho scritto poi la storia di un coniglio che si chiama Blu, ma è giallo, nata per un concorso al Mimaster e diventato un bel libro disegnato da Francesco Pirini, tradotto anche in Cina.

Sono stato un bambino atipico. Mia madre sostiene che non sono mai stato davvero bambino, che sin da piccolo avevo qualcosa di molto più serio, posato, determinato e poco infantile. Quindi, per rivolgermi ai lettori più piccoli, devo trovare qualcosa di davvero convincente, che piaccia al me bambino e che possa essere raccontato anche ai bambini di oggi.
Ho qualche idea. Con te abbiamo parlato di qualcosa. Si tratta di trovare “quello giusto”. Il domani è oggi.

Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, Centauria, 2021
Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, Centauria, 2021
Paolo Mieli e Francesco Cundari, Ivan Canu (illustrazioni), “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti”, Centauria, 2021
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