Intervista a Maurizio Ceccato, autore della miglior copertina italiana dell’anno secondo il premio Buona la Prima

Chi segue il mondo dell’editoria sa bene che in molti paesi — in special modo quelli anglosassoni — vengono regolarmente organizzati dei premi per decretare le migliori copertine dei volumi usciti in libreria. Oltre che un’occasione per fare il punto su quelle che sono le tendenze a livello di comunicazione visiva, manifestazioni di questo tipo servono anche a riconoscere, al di là delle classifiche di vendite, il lavoro fatto dai progettisti grafici e dagli art director — figure che al grande pubblico, che raramente si ferma a leggere i nomi di chi ha curato l’aspetto visivo e materiale dell’oggetto-libro, perlopiù non dicono nulla.

Da qualche anno, tuttavia, anche in Italia abbiamo un’iniziativa simile e lo dobbiamo a Stefano Salis. Bibliofilo, animatore culturale e giornalista del Sole 24 ore, dove tiene l’imperdibile rubrica Cover Story, dedicata proprio alle copertine, Salis si è inventato il premio Buona la Prima!, un premio dove in palio non c’è altro nulla, a parte la stima di colleghi e addetti ai lavori, ma che diventa una preziosa occasione per scoprire lo stato dell’arte della grafica editoriale italiana.

Oltre allo stesso Salis, in giuria ci sono molti addetti ai lavori, tra grafici, artisti, giornalisti e librai. Quest’anno, a scegliere la miglior copertina, sono stati Paolo Lusci, editore e presidente della Fondazione Dessì, che ha sede a Villacidro, in Sardegna; lo scrittore e bibliofilo Andrea Kerbaker, fondatore della Kasa dei Libri di Milano; e poi, tra i grafici e gli artisti, Silvana Amato, Giacomo Callo, Maurizio Ceccato, Pietro Corraini, Cristiano Guerri, Francesca Leoneschi, Giovanni Lussu, Mario Pizza, Luca Pitoni, Guido Scarabottolo e Leonardo Sonnoli; tra i giornalisti, saggisti e librai c’erano invece Enza Campino della Libreria Tuttilibri di Formia, Marco Filoni, Valentina Notarberardino, Giacomo Papi e lo staff della Libreria Luxemburg di Torino.

Martin Michael Driessen, “Fiumi”, Del Vecchio Editore, 2020
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Le motivazioni ufficiali di alcuni dei giurati dell’edizione 2020 di Buona la Prima!: Giacomo Callo, Marco Filoni, Cristiano Guerri e Francesca Leoneschi
(courtesy: Maurizio Ceccato)

Ad aggiudicarsi l’edizione 2020 di Buona la Prima! è stato Maurizio Ceccato,
che è innanzitutto un amico ma che nel corso della sua lunga carriera — iniziata a diciotto anni in uno studio romano, dove lo misero per un paio di mesi a cancellare le matite dalle tavole a fumetti inchiostrate — ha fatto il fanzinaro, il fumettista, l’illustratore, il pittore, il fotografo, il grafico editoriale, l’editore indipendente, il libraio e il padre.
Negli anni Maurizio ha collaborato con un bella fetta dell’editoria italiana, da Il Manifesto a l’Espresso, da Il Fatto Quotidiano al Gambero Rosso, da Fazi a Laterza, da Castelvecchi a Transeuropa, da Hacca a Ponte alle Grazie, Del Vecchio, Gaffi, Playground, Giulio Perrone Editore.

È con la copertina realizzata per Fiumi di Martin Michael Driessen, edito da Del Vecchio, che è arrivata la vittoria. E la sua, insieme a tutte le altre copertine selezionate, è stata messa in mostra dal 21 settembre al 27 settembre scorsi a Villacidro, in occasione del Premio Letterario Giuseppe Dessì, in un’esposizione particolarmente interessante perché non presentava le sole cover ma i libri interi, “in 3D”, aspetto più che mai importante in un’epoca di libri instagrammati e di ebook.

In attesa che la mostra si sposti a Milano, dove il 28 ottobre verrà inaugurata presso quel luogo straordinario che è la Kasa dei Libri di Andrea Kerbaker, ho contattato al telefono Maurizio Ceccato e, dopo dieci minuti a chiacchierare, in veste di padri, dell’inizio della scuola per i nostri pargoli, siamo passati al sodo: alle copertine, ai libri, alla grafica.


«Ti mando anche la copertina “distesa”», mi ha detto Maurizio, «perché una cosa che non si vede mai. Consideriamo sempre la copertina unicamente come il piatto frontale e invece la copertina avvolge tutto il libro. Sulle alette, ad esempio, c’è una legge non scritta che dice che lì vanno le informazioni di servizio — biografia dell’autore, anticipazione della trama — ma in alcuni casi puoi anche giocare con quello spazio».
(courtesy: Maurizio Ceccato)

Maurizio, sai perché hai vinto?
Che motivazione ti hanno dato?

Non ne ho idea [ride, ndr].
Scherzi a parte, poi ti mando il documento con le motivazioni.
I giudici scelgono tre libri e li votano. Tra tutti i libri, quello che risulta con più voti vince.
La mia copertina ha avuto molte candidature.

E non solo. Hai vinto pure l’anno scorso.

Sì, con la copertina di Assemblea, di Michael Hardt e Antonio Negri, pubblicato da Ponte alle Grazie.
Ma giuro che non ho pagato né minacciato nessuno [ride, ndr].

La copertina del libro con cui Maurizio Ceccato ha vinto l’edizione 2019 di Buona la Prima!
(courtesy: Maurizio Ceccato)

Parliamo del premio di quest’anno: la copertina di “Fiumi” di Martin Michael Driessen, per Del Vecchio Editore.
Tecnicamente come l’hai realizzata?

È un disegno che ho fatto inizialmente su carta, a matita, poi con la carta carbone l’ho trasferito su linoleum e a quel punto mi sono messo a incidere col bulino. Infine l’ho messo nel cassetto, per la fase di sedimentazione.

In che senso “sedimentazione”?

Io disegno molto. Sempre. E mi capita spesso di avere delle idee che poi lascio a sedimentare finché non arriva l’occasione giusta per tirarle fuori dal cassetto. Per questa copertina è andata così.
All’editore ho fatto diverse proposte, tra cui questa. Ho tirato fuori il linoleum, l’ho stampato con inchiostro nero su un vecchio cartoncino bianco ingiallito dal tempo. Per stampare, non avendo un torchio, ho usato ho usato il piede e il peso del mio corpo.
Infine ho scansionato la stampa e in digitale ho ritoccato il colore.

La stampa originale, con inchiostro nero su carta
(courtesy: Maurizio Ceccato)
L’idea per la copertina, abbozzata sul quaderno degli appunti
(courtesy: Maurizio Ceccato)

I titoli sembrano fatti coi trasferibili.

Sono proprio loro! Un foglio di vecchi Letraset di caratteri Akzidenz Grotesk. Hanno delle piccole crepe date dal trasferimento su carta.
Anche quelli li ho poi passati allo scanner, li ho colorati in digitale e infine ho assemblato tutto al computer, compreso il fondo di un vecchio cartone, che pure ho scansionato.

Quindi lo sfondo è carta? Sembrava legno, tipo truciolato.

Acquisendo ad alta risoluzione viene fuori tutto, pure la polvere. Ed è una cosa che io cerco molto: lo sporco, l’imperfezione, il disturbo.
Con Giacomo Callo [grande art director, per anni da Mondadori e ora a Chiarelettere, Sem e Aboca, ndr] ne discutiamo ormai da tanti anni su come lo sporco sia da tempo diventato una prelibatezza. Entrambi ci ricordiamo di quando i tipografi buttavano via i legni o i piombi scheggiati o rovinati. Oggi invece l’errore — lo sbaffo, lo stampato male, il fuori registro — sono preziosissimi.

I testi, composti con il Letraset
(courtesy: Maurizio Ceccato)
La copertina finale
(courtesy: Maurizio Ceccato)

È per mostrare che non è tutto digitale, che una mano ha lavorato effettivamente sulla materia.

Esatto. E il grande inganno è che la stampa oggi (mi riferisco al periodo dai primi anni 2000) deve fare un passo indietro e andare a recuperare lo sporco per sembrare più “vera”, rispetto al vero che c’era prima, quando invece si ricercava il pulito, il perfetto, il patinato. È successo in tutte le arti, dalla musica (pensa a Burial: gli scricchiolii e i fruscii delle puntine) alla fotografia.

Tu utilizzi molto questo mix tra strumenti manuali e digitali.

Io vengo dalle fanzine dei primissimi ’90, che a loro volta arrivavano da quelle punk degli anni ’70/80. Usavamo le fotocopiatrici. Tiravamo fuori prodotti “sporchi”, di uno sporco inconsapevole, dettato dall’urgenza, dalla velocità, dalla mancanza di mezzi economici. E venivamo presi come cialtroni. Non avevamo idea che quello stesso “sporco” sarebbe diventato, venti o trent’anni dopo, qualcosa di molto ricercato.

Uno sporco che spesso si tenta di ricreare in digitale, e diventa uno sporco “costruito”.

Ecco, quello io cerco di evitarlo. Ti faccio un esempio: nel 2005 lavorai a una collana per la casa editrice L’Ancora del Mediterraneo, che oggi non c’è più. La collana si chiamava Un mondo a parte e l’avevo disegnata tutta quanta con dei fuori registro — tra l’altro il tipografo ovviamente mi chiamò credendo che si trattasse di un errore.
La realizzai prendendo una serie di retini, scansionandoli, sovrapponendoli e spostandoli di qualche millimetro. Le foto le ritagliavo con le forbici e le scansionavo, e si vedeva proprio il ritaglio fatto male, che era tipico, ad esempio, di vecchie riviste anni ’50 come Tempo oppure Oggi.
In pratica, se voglio dare quel sapore, cerco di usare il più possibile gli strumenti del “fatto a mano”.

Zofia Nałkowska, “Senza dimenticare nulla”, L’Ancora del Mediterraneo, collana “Un mondo a parte”, 2006
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Jacques Rossi, “Manuale del Gulag”, L’Ancora del Mediterraneo, collana “Un mondo a parte”, 2006
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Hongda Harry Wu, “Laogai”, L’Ancora del Mediterraneo, collana “Un mondo a parte”, 2006
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)

Beppe Giacobbe sostiene che sia necessario fare esperienza con la materia — graffiare la carta col pennino, incidere l’intonaco con un chiodo — prima di provare a ricreare lo stesso effetto con un software.

Sono d’accordo. Sono cresciuto avendo come strumenti un tavolo da disegno, una scatola luminosa per fare i lucidi, gli acetati, i letraset, le forbici, le penne a china, molte penne a china [ride, ndr], che sporcavano dappertutto, e poi le fotocopiatrici, che erano fondamentali.

Tu collabori con molte case editrici. Parlami del lavoro che fai per Giulio Perrone Editore.

Da due anni ho rifatto tutto il progetto grafico, il logo e la comunicazione visiva.
Mi hanno contattato nel 2017. Quando un editore che lavora già da tanti anni ti chiama e dice che vuole cambiare tutto, è impresa in cui ti butti con entusiasmo.
Sono molto soddisfatto di questo lavoro, anche per la fiducia che mi è stata data dall’editore, che è comunque un imprenditore, e deve venderli i libri. E Perrone fa ottimi libri, perché una buona copertina non può fare miracoli se il libro poi non vale niente.

Walter Mauro, “Miles & Juliette”, Giulio Perrone Editore, 2018
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Jan Carson, “Gli incendiari”, Giulio Perrone Editore, 2020
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Giorgio Ghiotti, “Alfabeto Primitivo”, Giulio Perrone Editore, 2020
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)

Stai lavorando anche con Italo Svevo — non lui, ovviamente, ma la casa editrice che porta il suo nome.

Sì, quello è un lavoro che ho costruito da zero. Italo Svevo Edizioni è stata una casa editrice fondata a Trieste nel ’66, poi fallita. L’editore romano Gaffi ha rilevato tutto il catalogo e il marchio qualche anno fa. Io già lavoravo con lui, e mi chiese di lavorare alla veste grafica e alla comunicazione visiva.
In quel caso ho pensato di rifarmi alle origini, al passato. Non mi sono inventato nulla, ma ho tirato fuori “dal cilindro” cose che non si facevano più da tempo. Grazie all’affiatamento con l’editore e l’ex direttore editoriale Giovanni Nucci abbiamo costruito i volumi con l’uso degli intonsi1, che fa arrabbiare moltissimo alcuni lettori [ride, ndr].
Usiamo della carta molto pregiata, sia per la copertina che per gli interni. Ma ti devi tagliare da solo le pagine col tagliacarte [ride di gusto, ndr].
Questo ha dato subito un sapore ben preciso alla casa editrice, ed è stata una strategia molto efficace per conquistare il target di riferimento, come i bibliofili, i librai. Sia a livello di autori — Rossari, Fachinelli, Caproni — che di “oggetto libro”, sicuramente è un progetto editoriale con un pubblico di riferimento ristretto ma ben preciso.

Anche per Italo Svevo, come per Perrone, le tue copertine dimostrano una grande ricerca visiva, tra vecchie incisioni, decorazioni, caratteri…

Sono io che “sfrucugno” allegramente il passato e lo ributto in faccia. Sono come quei dj che vanno a cercare vecchi dischi nei mercatini e poi li campionano e ci fanno le basi.

Marco Rossari, “Piccolo dizionario di malattie letterarie”, Italo Svevo, collana “Piccola biblioteca di letteratura inutile”, 2016
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Giovanni Bitetto, “Scavare”, Italo Svevo, collana “Incursioni”, 2019
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Veronica Galletta, “Le isole di Norman”, Italo Svevo, collana “Incursioni”, 2020
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)

È una tendenza che si ritrova anche a livello internazionale.

Esatto. Io amo molto David Pearson, non so se hai presente.

Certo! Ho visto di recente il lavoro fatto per le nuove uscite della serie “Great Ideas” di Penguin. Soprattutto una mi ha colpito: la copertina di “The Power of Words” di Simon Weil, realizzata come una prima pagina di quotidiano e il titolo creato sottolineando alcune parole.

Chiaramente Penguin sta sulla vetta della montagna. Da lassù può permettersi di fare tutto ciò che vuole, col catalogo che ha.
Dai un’occhiata al lavoro fatto da Pearson per i libri di John LeCarré. L’editore doveva ristampare alcuni dei titoli e lui ha tirato fuori un progetto grafico che sembra uscito dagli anni ’70. Sono libri nuovi, che hanno sia un sapore contemporaneo che quello dei tascabili di cinquant’anni fa.
L’intelligenza di Pearson è stata remixare questo tipo di estetica da best-seller da bancarella per LeCarré, che un nome che vende da solo, pure se non metti il titolo, pure se non scrivi John, il nome.

Rawi Hage, “Il gioco di De Niro”, Playground/Fandango, 2019
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Marco Aragno, “Cancellare la città”, Transeuropa, 2018
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Paolo Godani, “Tratti”, Ponte alle Grazie, 2020
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)
Alessandro Capponi, “Gli effetti invisibili del nuoto”, Hacca Edizioni, 2020
(copertina e courtesy: Maurizio Ceccato)

Ma il tuo amore sono i periodici, giusto? Però in veste di illustratore.

Sì, è un mio pallino, chiamiamolo così. Ho iniziato come illustratore al Manifesto, dove ho lavorato per dieci anni. Poi al Fatto Quotidiano, L’Espresso, il Gambero Rosso. Il problema è che coi giornali e le riviste i budget sono in calo da anni. Ora sto collaborando con Artribune per l’inserto Grandi Mostre.
Credo però che se avessi dovuto cominciare oggi, nel 2020, non avrei mai potuto fare l’illustratore.

Perché?

Perché secondo me oggi è molto più complesso. C’è una concorrenza pazzesca. Sono tutti bravissimi e sono anche ultra-specializzati. Io non credo di avere “uno stile”. Qualcuno ce lo può anche trovare, ma non è un’attitudine che mi appartiene. E invece nel panorama contemporaneo dell’illustrazione si richiede quello, credo, uno stile ben preciso.

Grazie Maurizio. Lascio a te l’ultima parola, se vuoi aggiungere qualcosa.

Saluto, ovunque sia, Vincenzo Scarpellini, ex art director de il Manifesto, che per suo merito e colpa ha creduto negli scarabocchi di un giovane arrabbiato.

Copertina per l’inserto Grandi Mostre di Artribune
(courtesy: Maurizio Ceccato)
Copertina per l’inserto Grandi Mostre di Artribune
(courtesy: Maurizio Ceccato)
Copertina per l’inserto Grandi Mostre di Artribune
(courtesy: Maurizio Ceccato)
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