Quando andai per la prima volta a Berlino il Muro era già caduto da sei o sette anni ma si sentiva ancora nell’aria la eco di un passato che gli innumerevoli cantieri di una città all’epoca in vorticosa trasformazione a malapena riuscivano a coprire.
In Italia si iniziò a parlare di ostalgie solo dopo il 2003/04, quando il fenomeno della nostalgia per la vita Repubblica Democratica Tedesca — quella DDR che usciva in sigla nei campionati del mondo e nelle olimpiadi e noi bambini chiedevamo a mamma e papà (beata innocenza) perché ci fossero due Germanie a fronte di una sola Italia, una sola Francia — venne sdoganato da un film come Goodbye, Lenin!, ma già nel mio primo viaggio berlinese le bancarelle piene di residuati dell’era del regime comunista non mancavano.
La DDR, quando esisteva ancora, era un buco nero: quasi impossibile uscirne, chi viveva lì era bloccato nel tempo e nello spazio, che obbedivano a regole diverse rispetto a quelle dell’Europa occidentale, l’Europa “libera”.
Negli anni post-caduta del Muro quel buco nero ormai collassato, come una macchina del tempo inceppata ha continuato a sputar fuori “reperti”, raccolti in un museo che sta dall’altra parte dell’oceano, il Wende Museum di Los Angeles (Wende in tedesco significa cambiamento ed il termine usato per descrivere il rapido processo di “occidentalizazione” della DDR dopo il 1989), e ora un librone recentemente pubblicato dalla Taschen, Beyond the Wall: Art and artifacts from the GDR, li presenta al pubblico in oltre 900 pagine divise in otto capitoli che raccontano — in quello che è probabilmente il più grande catalogo visivo sulla Germania Est — l’arte, l’estetica, la comunicazione, l’artigianato, la moda e la tecnologia ai tempi della DDR.