Come il mattone nell’architettura, la vibrazione nella musica, il tratto nel disegno, la luce nella fotografia, il tempo nel cinema, la parola nella letteratura, il filo è il numero primo della moda. Di seta, cotone, lana, canapa, bambù o fibre sintetiche è attraverso il filo che le aziende tessili costruiscono tessuti che, scelti con cura dagli stilisti, diventano poi gli abiti che indossiamo.
Ma il problema, con il tessuto, è che non c’è foto che possa descriverne le sensazioni che quello dà al tatto, l’effetto della luce che ci sbatte sopra in una umida e metallica mattina d’inverno, il suono che fa quando ci passano sopra le dita di qualcuno che ami, il profumo di quando si sposa col tuo odore unico e irreplicabile.
Forse solo le parole possono farlo — se chi le usa sa ascoltare, osservare, sentire e immaginare, e poi tradurre il tutto in un racconto multisensoriale.
Non sarebbe meraviglioso un campionario di soli tessuti raccontati, per poeti della moda?
In attesa di vederne pubblicato uno, gli studenti delle scuole di fashion design dovranno accontentarsi di libri come questo — Fabric for Fashion, giunto alla sua seconda edizione — che dei tessuti racconta origine e lavorazioni, mostrandone campioni capaci di stimolare, in chi è del mestiere o lo sta imparando, l’idea di futuri potenziali abiti o di aiutare a scegliere il tessuto migliore a vestirla, quell’idea.