Cancel culture: forse vogliamo cambiare il passato perché siamo incapaci di immaginare un futuro?

(Un articolo con molte domande e nessuna risposta)

In questi giorni in tanti hanno scritto sulla questione relativa alle riedizioni inglesi di Puffin dei libri di Roald Dahl. I pareri sono diversi, tra chi difende la libertà di espressione dell’autore e chi quella dell’editore, e degli editori in generale, di adattare i testi del passato a un pubblico più attuale. Anche io ho espresso la mia posizione qui.
Riflettendo sulla questione della cancel culture, mi sono reso conto che il diritto di modificare testi o personaggi del passato ritenuti inadatti al pubblico di oggi poggia su un assunto che forse dovremmo mettere in discussione, ovvero: che il passato ci appartiene.
O meglio, ci appartengono moralmente le opere artistiche del passato, e quindi abbiamo ogni diritto di farci un po’ quello che ci pare.

Ora, sebbene la norma consenta, una volta scaduti i diritti (cosa che non è successa con Roald Dahl i cui diritti non sono ancora scaduti: sono stati i legittimi eredi a cedere, con una compravendita, tutte le sue opere a Netflix), di impossessarci di un’opera altrui e di ripubblicarla così com’era o editata, arrangiata, reinterpretata in modo diverso, dovremmo forse discutere se l’etica ci dia il diritto di rimaneggiare il lavoro intellettuale e artistico di qualcuno che non è più tra noi per poter contestare le nostre scelte.

Personalmente mi sono sempre sentito in imbarazzo nel leggere il nome di alcuni colleghi sui titoli di certi classici. Nel tempo, mi sono concesso più volte di parodiare favole o storie classiche, ma riscriverle attribuendomene la paternità, mi è sempre sembrato un gesto pretenzioso.
Come direttore artistico ho seguito la lavorazione di alcune riduzioni, e devo dire che anche in quel caso ho avuto qualche dubbio. Abbiamo davvero il diritto intellettuale di “ridurre” un testo con la scusa di portarlo a un pubblico diverso da quello al quale era idealmente rivolto in origine? 
E cosa prevale realmente, in questo genere di operazione? La voglia di condividere una storia che ci è piaciuta oppure quella di confezionare un prodotto che, con un nome e un titolo noti, avranno più chance di farsi notare rispetto a una storia scritta da un autore moderno?
Ammettendo che la risposta sia la prima: perché gli editori attendono in agguato lo scadere dei diritti dei classici per poterne disporre senza pagare?
La passione per i classici è incompatibile con il dovere di pagarne i diritti?
Quanta sincerità intellettuale c’è davvero in chi sostiene il suo grande amore per i classici, ma sta attento a muoversi unicamente sul terreno del dominio pubblico, per non doverli pagare?

Abbiamo davvero il diritto intellettuale di “ridurre” un testo con la scusa di portarlo a un pubblico diverso da quello al quale era idealmente rivolto in origine? 

(immagine generata con DALL·E 2)

Lo so, mi sto allontanando dal centro della questione, ma non posso farci niente.
Sono convinto che a guardare le cose troppo da vicino ci sfugga sempre qualcosa. E secondo me, l’assunto della cancel culture viene da lontano, perché si fonda su una presunzione che è alla base del nostro impianto culturale: poter disporre del pensiero artistico altrui, (se è morto), per farci i nostri comodi.

Un paio di anni fa, si è molto dibattuto in Francia il titolo di un libro famosissimo di Agatha Christie: Dieci piccoli indiani, che nella traduzione francese era Dix petits nègres.
Ritenuto offensivo è stato modificato in Ils étaient dix (Erano in dieci).

Chi è bene informato saprà che il libro di Agatha Christie, pubblicato nel 1939 con il titolo Ten little niggers (tratto da una filastrocca popolare, citata nel romanzo) non ha dato da pensare solo ai francesi contemporanei, anzi, venne già modificato nella prima edizione americana del 1940 in And Then There Were None (sempre dalla filastrocca citata nel romanzo)
Anche la prima edizione italiana (Mondadori, 1946) riprende questo titolo (E poi non ne rimase nessuno). In seguito, tra il 1964 e il 1986 venne ristampato in America con il titolo Ten little indians, mentre in UK conservò il titolo originale fino al 1985.
Nel 1986 (ovvero dieci anni dopo la morte dell’autrice) il romanzo fu nuovamente intitolato And Then There Were None.
Al cinema, il titolo è stato And Then There Were None nel film diretto da René Clair del 1945, e in seguito Ten Little Indians sia nella pellicola di George Pollock del 1965 che in quella di Alan Birkinshaw del 1989. 

Anche allora mi sono chiesto: abbiamo il diritto di cambiare il titolo del libro di un autore morto, perché non ci piace più? Se un testo o il pensiero di un autore non ci corrispondono più, perché la società è cambiata e si è evoluta (come è giusto che sia) perché ci ostiniamo con il voler saccheggiarne il lavoro, ponendo come condizione che venga modificato per piacerci?
E soprattutto: visto che siamo così bravi a trovare difetti etici nelle opere degli autori trapassati, perché non ci decidiamo a scrivere un capolavoro, come appunto Dieci piccoli indiani, che rispetti tutti i paletti etici che cerchiamo di imporre alla scrittura altrui?

Se un testo o il pensiero di un autore non ci corrispondono più, perché la società è cambiata e si è evoluta (come è giusto che sia) perché ci ostiniamo con il voler saccheggiarne il lavoro, ponendo come condizione che venga modificato per piacerci?

(immagine generata con DALL·E 2)

Come vi ho promesso nel sottotitolo di questo articolo, ho molte domande ma nessuna risposta. I miei sono solo dubbi e spunti di riflessione.
Allargando ancora l’inquadratura del problema, aldilà della questione del diritto, etico o giuridico, di modificare le opere del passato, a me sembra di vedere anche un’altra cosa: ormai da decenni non facciamo che rimestare nel passato perché di fatto non riusciamo a immaginare un futuro. Forse siamo pessimisti, forse siamo pigri, forse è solo che abbiamo troppa fretta di fare soldi.
Voglio dire: perché rivendicare un ruolo eroico per le donne e i neri femminilizzando o etnicizzando personaggi già esistenti? È una pratica sempre più frequente, soprattutto nel fumetto, portata avanti sotto la bandiera della parità di genere e dell’inclusione.
Ma perché non creiamo nuovi e fichissimi personaggi femminili o di colore anziché limitarci a rifare pallide copie di personaggi noti, di volta in volta in salsa diversa?
La risposta mi sembra ovvia: perché non ne siamo capaci.
E soprattutto: perché non vogliamo esporci al rischio che non funzionino.

Ormai da decenni non facciamo che rimestare nel passato perché di fatto non riusciamo a immaginare un futuro.

(immagine generata con DALL·E 2)

Io penso che sia venuto il momento, per i sostenitori del politically correct, della parità di genere e di tutti coloro che rivendicano, più che giustamente, una maggiore visibilità di qualsiasi genere di minoranza, di rimboccarsi le maniche e cominciare a scrivere: i propri film, i propri libri, i propri fumetti, anziché depredare quelli altrui in nome di cause che possono anche essere nobilissime e condivisibili, ma che sempre di più assumono i contorni del plagio culturale
E noi autori dobbiamo puntare un pochino di più i piedi, almeno finché siamo vivi, contro richieste che sentiamo motivate solo dal desiderio commerciale di piacere a un pubblico più ampio. 
Forse dovremmo anche rivalutare il nostro approccio con i classici e rispettarli e accettarli per come erano, anziché semplificarli e adattarli perché vengano capiti a tutti i costi.
In generale, penso che dovremmo rassegnarci al fatto che non si può piacere a tutti e anche al fatto che, in fondo, va bene così. È giusto che ci siano voci diverse e che ciascuno scelga quella che gli corrisponde di più.
Credo che sulla lunga distanza, la sincerità venga apprezzata. Io, personalmente, preferisco ascoltare o leggere un fascista autentico anziché un finto progressista. Che poi io, il fascista, come pensiero, non lo condivida, è un’altra storia. Ma anche questa è una cosa che dobbiamo imparare. Non dobbiamo essere sempre d’accordo con quello che leggiamo. 
Leggere è bello a prescindere dal fatto che chi scrive la pensi come noi.

Penso che dovremmo rassegnarci al fatto che non si può piacere a tutti e anche al fatto che, in fondo, va bene così.

(immagine generata con DALL·E 2)
editorialista
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  1. ….qualcuno pare abbia,più o meno, detto : ” non condivido le tue idee,ma lotterò fino alla morte per consentirti di poterle esporre liberamente ! “.Questo è,fondamentalmente,il modo giusto di individuare il vero concetto di ” libertà “.Ed invece,in questo Mondo di oggi,pare che si sia disposti ” a lottare fino alla morte per consentire agli altri la libertà di esprimere le proprie idee,purchè coincidano con il nostro modo di pensare ” ! E’ uno strano Mondo questo,al quale ritengo di non appartenere,soprattutto perchè il ” pregiudizio ” è,da sempre,una delle più gravi malattie dell’essere umano…..

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