Su Roald Dahl, censura e frittate

Quello che accade in questi giorni ai libri di Roald Dahl non mi stupisce poi più di tanto. 
Sono anni che gli editori chiedono a noi autori di alleggerire le parole, di smussare certi termini o di inserire a forza personaggi solo per compensare le ingiustizie sociali del passato o di un presente che non sempre ci riguarda direttamente.
“Devi metterci una bambina” è la richiesta che mi sono sentito fare più spesso negli ultimi anni.
Quasi nessuno accetta più che tu possa scrivere un libro in cui si gioca tra maschietti. Come se poi nella realtà non si facessero i gruppetti, maschi da una parte e femmine dall’altra. 
Altra cosa che ormai impatta regolarmente nei nostri libri è il revisionismo storico. Nei libri come nel cinema, ormai dobbiamo raccontare il passato come se fosse il presente, cancellando quindi secoli in cui non ci sono stati pari diritti per donne e uomini, così come per neri e bianchi, ricchi e poveri.

Sono soprattutto i miei progetti americani a saltare più di frequente per questioni legate alla crescente “sensibilità” del pubblico. Io penso però che la parità di genere o l’inclusione spesso tirati in ballo per giustificare determinate scelte, siano temi sì importanti, che dovrebbero però essere trattati dalla politica e dalla società reale, non essere unicamente un’imposizione morale fatta a chi produce intrattenimento, con lo scopo di “dare l’esempio”. 
Invece esiste questo equivoco per cui libri e film servano a educare i bambini al posto dei genitori, degli insegnanti, degli adulti in generale. Esiste anche l’equivoco per cui gli unici a cui si debba “insegnare” qualcosa, come la storia per esempio, siano appunto i bambini.
Quante volte ho sentito dire: “bisognerebbe portare i bambini in gita ad Auschwitz!”
Davvero è così necessario? Toglier loro fin da piccoli ogni illusione di bellezza e fiducia nel genere umano?
Ma perché invece non facciamo dei pullman di ministri degli esteri e dell’interno (ma vanno bene anche i ministri dell’agricoltura, delle infrastrutture, vanno bene tutti) da mandare in gita ad Auschwitz? Secondo voi, quanti dei nostri ci sono stati? E quanti sono mai stati in Siberia a vedere dove andavano i deportati di Stalin del quale, in un periodo storico non troppo remoto, alcuni elogiavano tanto il modello?

Esiste questo equivoco per cui libri e film servano a educare i bambini al posto dei genitori, degli insegnanti, degli adulti in generale. Esiste anche l’equivoco per cui gli unici a cui si debba “insegnare” qualcosa, come la storia per esempio, siano appunto i bambini.

(foto: Frizzifrizzi)

Il perbenismo che ci obbliga a modificare i nostri libri e ora anche quelli degli autori defunti è un campionario di contraddizioni. La stessa America che pretende l’inclusione nei libri per bambini, poi abolisce diritti fondamentali come l’aborto per un cavillo legale. 
La stessa Europa che pretende a sua volta inclusione, poi progetta muri contro gli immigrati
Dove sono finiti l’inclusione e i diritti per tutti?
Parlando di cose più piccole e vicine al nostro quotidiano, guai ormai se una mamma in un libro per bambini lava i piatti. Statisticamente però, nella realtà, continuano a essere le mamme a farlo e a occuparsi, più in generale, della casa e dei figli.

Ormai da anni, è sempre la cultura a venire attaccata, e la cosa assurda è che sono le stesse persone che lavorano nell’ambito culturale a cavalcare la distruzione della libertà di espressione. Nei libri per bambini ci deve essere inclusione a parità. Nella realtà però, i bambini vittime dei bulli devono cambiare scuola, nella realtà i soffitti crollano sugli studenti, nella realtà gli studenti aggrediscono gli insegnanti e qualche accade volta accade anche l’inverso. Il problema però sono le parole nei libri, perché potrebbero ispirare cattive azioni.
Ma nessuno ha ancora dimostrato che i bulli picchiano i compagni o aggrediscono gli insegnanti per averlo letto da qualche parte. Del resto, se fosse così, ci sarebbe da chiedersi, che libri avevano letto da bambini Hitler, Mao, Stalin, Pol Pot, per massacrare tanta gente?
È stata tutta colpa di Beatrix Potter?
E perché in America certi studenti vanno a scuola con un fucile automatico e fanno una strage?
È colpa dei libri di Dr. Seuss?
E perché tanti maschi della mia generazione ancora non lavano i piatti? Forse perché nei libri di Richard Scarry era sempre Mamma Porcello a farlo?

(foto: Frizzifrizzi)

Per quanto tutta questa storia sia priva di ogni logica, una logica invece ce l’ha.
O perlomeno è una logica conseguenza. Voglio dire, nel momento in cui nelle redazioni assumi il sensitivity reader, che cosa vuoi che faccia? Se il suo lavoro consiste nel trovare problemi, per mantenersi il posto, troverà problemi. Se finissero i problemi, finirebbe anche la sua utilità.
Anni fa ho seguito una lavorazione per degli americani e nel progetto comparve anche il sensitivity reader. Ho capito presto che il suo scopo non era spiegarci cosa potesse essere culturalmente frainteso e doveva quindi essere evitato, ma passare al setaccio il nostro lavoro con l’unico scopo di trovare l’occasione per dire che eravamo razzisti.
Dopo i primi invii di materiale, il consulente ebbe da ridire su un tono di Pantone. Affermò che facevamo white washing e nella sua brillante ingenuità, spese anche del tempo spiegarci che cos’era. Tutto perché il colore della pelle del protagonista non corrispondeva a quello del modello cinematografico.
E io, anziché lavorare a cose più utili, ho dovuto spendere altro tempo per spiegargli che la pellicola e la carta sono due supporti diversi, che sulla carta si stampa in quadricromia e che il marrone è un colore complicato, che facilmente si “impasta” perché contiene molto nero. 
Tenerlo di un grado più chiaro quindi non era il desiderio di schiarire la pelle delle persone di colore perché sono un suprematista bianco, ma il desiderio di rendere leggibile un’immagine che, a seconda della carta utilizzata per la stampa, poteva dare un risultato molto diverso da quello apparentemente brillante del video.
Non ricordo di aver mai ricevuto una risposta né una parola di scuse. 

In Francia, qualche mese fa una polemica scoppiata sul lavoro del fumettista Bastien Vivés è sfociata in minacce di morte nei suoi confronti e nell’annullamento della sua mostra prevista al Festival del fumetto di Angoulême. Innescata la polemica sul suo lavoro, i suoi detrattori si sono affrettati a inviare migliaia di messaggi al suo profilo Instagram ricoprendolo di insulti e dandogli del pedofilo, per i contenuti di alcuni suoi fumetti.
La pedofilia però, in Francia come altrove, è un reato e nei confronti di Vivés non mi risulta nessun procedimento giudiziario. E anche se fosse, oggi la legge ci impone di indicare la persona sotto processo come “presunto” autore del reato contestato. Persino gli attentatori del Bataclan, durante il processo, sono stati indicati come “presunti autori” della strage.
Ma i processi sui social ci piacciono di più perché sono immediati. Sono condanne a morte senza diritto di replica né di appello, perché non vediamo l’ora di veder scorrere il sangue e di vedere qualcuno precipitare nel fango. 

(foto: Frizzifrizzi)

Ecco, è questa mancanza generalizzata di moralità, di civiltà, di logica e di cognizione giuridica che ci ha portato fin qui, all’epoca in cui si censurano le storie di Zio Paperone di Don Rosa o i romanzi di Roald Dahl perché li riteniamo scandalosi, perché abbiamo la coscienza sporca sul nostro passato e perché anziché come narrazioni li intendiamo come manuali di comportamento, cosa che non sono. Così come le azioni o i pensieri di un personaggio di invenzione non necessariamente rispecchiano le intenzioni e le idee del loro autore, così un libro un fumetto, un film non sono un manuale comportamentale.
Curiosamente ci indigniamo per ciò che leggiamo in un libro o vediamo in un film ma lo facciamo molto meno per le migliaia di individui che da anni vivono baraccati in una tendopoli a nord della Francia, più volte sgombrata dalle autorità francesi, così come ci indigniamo meno per la quantità di denunce relative a molestie sessuali subite da minori in chiesa. Stranamente non ne percepiamo l’ingiustizia e non ci sentiamo responsabili quando non facciamo niente per cambiare il corso delle cose. 
L’importante è che nei libri per bambini, a seconda del caso, non si veda un culo, una donna che passa l’aspirapolvere o un nero povero. E poi che non si usino parole come “basso” o “grasso”.

L’importante è che nei libri per bambini, a seconda del caso, non si veda un culo, una donna che passa l’aspirapolvere o un nero povero. E poi che non si usino parole come “basso” o “grasso”.

Io penso che forse, in fin dei conti, non dovremmo prendercela con il sensitivity reader, ma riflettere sul fatto che il problema sta sempre nelle scelte che facciamo. 
Se a qualcuno dai un uovo e una padella, farà una frittata. 
Ma se gli dai una mazza da baseball, sarà difficile che cucini qualcosa. 

[N.d.E: Nelle foto, alcuni dei libri di Roald Dahl, pubblicati in Italia dalla casa editrice Salani, che — ci teniamo a sottolinearlo — non c’entra nulla con la polemica sulle modifiche alle storie di Dahl]

(foto: Frizzifrizzi)
editorialista
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  1. Caro Davide, mi viene voglia di abbracciarti! Bambini “belli”, educati e genitori felici sono stati l’incubo di tutto il mio lavoro per i primi vent’anni. Gli anni ’80 erano peggio. Ma l’ipocrisia della nostra contemporaneità non è da meno. Per fortuna adesso ci sono molti più editori che si muovono senza queste gabbie. Mi domando poi se si dovranno epurare anche Lo zio Tom o Pierino Porcospino.

  2. Non credo di avere mai letto un articolo cosi banale e arrogante. Uno sfogo infantile e senza senso, un inutile esercizio di un uomo rancoroso che scopre di essere diventato irrilevante o forse di esserlo sempre stato. Forse invece di aggrapparsi disperatamente ai suoi piccoli privilegi Davide Cali dovrebbe farsi alcune le domande perché gli da tanto fastidio dover inserire una bambina in un gruppetto di bambini per esempio? Perché questa sarebbe un’imposizione morale addirittura, perché questo rifiuto categorico di produrre un immagine dove tutti possano rispecchiarsi. Perché non cambiare certe attitudini e certi modelli? La generazione di Cali ha forse contribuito a produrre una società equilibrata e giusta? Mi guardo intorno e non mi sembra. Perché questo limiterebbe la sua libertà di espressione, termine che tra l’altro usa impropriamente? A chi si riferisce Cali quando dice parla di un presente che non sempre ci riguarda direttamente. Ci? Ci chi? Cosa vuol dire? Che siccome sono bianco il razzismo non mi riguarda? O che siccome sono uomo il femminismo non mi riguarda?
    Perché gli da tanto fastidio dovere accontentare con piccolissime modifiche alcuni gruppi che sono stati storicamente discriminati e umiliati per decenni? “Solo per compensare le ingiustizie sociali del passato”. In che senso “solo”? Cercare di compensare le ingiustizie del passato ti sembra poco? Cali parla dell’importanza di rispecchiare la (sua) realtà ma poi afferma che portare un bambino ad Auschwitz e sbagliato. Come se portare un bambino ad Auschwitz annientasse in loro “ogni illusione di bellezza e fiducia nel genere umano”? Ma veramente? Non gli viene in mente nessun’altro scopo possibile? Ma a che bambini parla, Cali? Cali definisce i suoi libri intrattenimento, non sono quindi libri educativi, secondo Cali. Perché una cosa deve escludere l’altra? Inserire una bambina che gioca in un gruppetto di bambini (esiste anche questo, almeno nella mia realtà) non detrae niente, non perderebbe il suo valore come intrattenimento, non tornerebbe il libro necessariamente uno strumento solamente educativo? It takes a village, Cali. Se puoi farlo perché questo rifiuto, questa crociata inutile, questo sfogo rancoroso? Perché ascoltare altri punti di vista e vedere le cose da più angoli possibili non può contribuire a restaurare alcuni di questi disequilibri? Forse Cali dovrebbe cercare di aprirsi a cambiamenti, a 50 e più anni penso sia ancora possibile. Forse Cali dovrebbe cambiare le sue frequentazioni se pensa che tutti siano ipocriti, se pensa che non ci siano persone che fanno sia una cosa che l’altra. Che cercano di cambiare le cose piccole ma anche quelle grandi. E un consiglio da graphic designer che ha studiato sia in Inghilterra che negli US: tutti i colori sono difficili da gestire. Secondo me ce la puoi fare a gestire il marrone. Dai, non è impossibile. E comunque potresti imparare qualcosa dal sensitivity reader, potresti lasciarti guidare dalle sue competenze che sono tante e molto importanti anche se per te sono solo creatori di problemi e rompiscatole.

    1. Cara L,
      ha perfettamente ragione. Quello di cui godo, come scrittore, insieme a tanti altri come me, è proprio un grande privilegio. Quello di scrivere quello che voglio.
      È un privilegio scomodo talvolta, perché tutti noi, che scriviamo per noi stessi, al tempo stesso vorremmo piacere agli altri, e quindi, con ciò che scriviamo teoricamente per noi, vorremmo poi ricevere il consenso altrui. Ma rimane comunque un privilegio e non penso che sia da persone rancorose o irrilevanti pretendere di mantenerlo.
      Io del resto non la conosco, ignoro che lavoro faccia, ma se anche lo sapessi, non mi sentirei in diritto né in dovere di venire a dirle come farlo.

      Nei miei libri ci sono bambini, bambine, animali, adulti, qualche volta robot.
      Non mi sono mai fatto il problema di dover destinare una “quota” a nessuno di questi protagonisti e per questo mi secca quando mi viene imposta senza nessun motivo “narrativo”.
      Io credo che si debba avere rispetto dei propri personaggi e anche dei lettori.
      Se scrivo di una bambina è perché in quel momento ho in mente un personaggio che funziona come bambina. Se trasformo un maschietto in bambina solo per far piacere a qualcuno, probabilmente funzionerà meno, perché sento la forzatura.
      In generale, quando scrivo, non penso mai ai bambini, tantomeno a se i lettori saranno maschi o femmine. È un problema irrilevante per me. Sono i lettori a scegliere cosa leggere e io lo scopro solo a cose fatte.

      Quanto all’immagine in cui tutti possano rispecchiarsi: spesso mi chiedono più storie con bambini (io ho la tendenza a scrivere storie con protagonisti adulti) in cui possano maggiormente immedesimarsi. Però, a frequentare i bambini nelle scuole, ho imparato che una cosa non gli manca ed è proprio la capacità di immedesimarsi.
      I piccoli si immedesimano praticamente in qualsiasi cosa: da un temperamatite a un gatto.
      Forse crescendo, verso l’adolescenza, i lettori hanno una maggiore tendenza a cercare protagonisti del proprio sesso, ma prima mi sembra un elemento ininfluente.
      In generale, ho continuato a scrivere senza seguire troppe imposizioni. Qualche volta la storia piace, altre no. È il gioco di questo lavoro. Non mi va di fare niente per “piacere” perché credo sia anche un po’ disonesto.
      Una cosa posso dirle con assoluta certezza: ogni volta che ho ceduto a una qualche indicazione del marketing (lascia stare il discorso maschi-femmine, il marketing si esprime su mille altri argomenti) perché questo avrebbe significato “vendere di più” (mi spiace, ma alla fine di questo si parla, tutto il resto in realtà conta poco) non ho visto risultati pazzeschi nelle vendite.
      Per me è la riprova che le storie vanno bene come sono, poi sarà il pubblico a scegliere e decidere cosa gli piace, ma tu non puoi andare incontro ai suoi gusti ipotetici manipolando quello che scrivi, né per opportunismo né per motivi ideologici, perché perde spontaneità, e il pubblico intelligente se ne accorge.

      Rispetto all’inclusività, come forse ho già detto, c’è solo una questione sulla quale mi sento sensibile”, ed è la rappresentazione etnica. Frequentare professionalmente gli americani mi ha fatto riflettere sul fatto che i nostri libri, in Europa, sono un po’ troppo “bianchi”, rispetto alla società in cui viviamo. I bambini che vedo nelle scuole non li ritrovo poi nei libri e questo credo sia qualcosa su cui possiamo lavorare. Ma non faccio imposizioni. Introduco semplicemente un tema di possibile riflessione. Poi si discute insieme perché è così che si fanno le cose.

      Altre cose che lei mi scrive, mi sembrano un po’ sue interpretazioni, con un intento leggermente offensivo, per cui penso ci vorrebbe un dialogo più articolato, per chiarire alcuni concetti.

      Rispetto alle gite ad Auschwitz, ribadisco la mia percezione di un bisogno educativo che spesso rivolgiamo unicamente ai bambini, ai quali abbiamo fretta di comunicare certe cose, quando forse potremmo provare a trasmetterle agli adulti. Personalmente, cercherei di preservare un pochino di magia nel cuore dei bambini, e fargli scoprire i campi di concentramento più avanti.
      Nel frattempo, abbiamo tanti adulti su cui poter lavorare.

      Non rinnego il potere educativo dei libri, ma credo che l’equivoco stia nel fatto che debba essere un “dovere”. Molti miei libri, mi dicono, contengono una “morale” ma non lo faccio mai di proposito. Viene fuori in modo naturale dallo scrivere perché scrivo c essenzialmente ciò che penso o che mi capita. Ma non mi metto mai di proposito a scrivere per insegnare niente a nessuno (perché credo di non essere in grado di insegnare nulla e nessuno).
      Alcuni colleghi, più bravi di me in questo senso, invece ci riescono.
      Ma rimane il fatto che non deve essere un obbligo.
      Così come non è un obbligo che la TV sia intelligente o che il cinema sia didattico (anche se entrambi, talvolta lo sono).

      Per il resto, la mia non è una crociata, ho solo scritto un articolo (mi sembra esagerato definirlo una crociata!), come altri ne sono usciti in questi giorni, su una questione che riguarda un po’ tutti: chi scrive, chi legge e anche chi non legge.
      Non vedo nulla di rancoroso nelle mie parole, ma semplicemente la somma di una serie di sensazioni che sono condivise da diversi colleghi.
      Poi, naturalmente, si può dissentire, come sta facendo lei.

      Quanto ai colori, tutto si può settare ovviamente, ma sapendo su che carta stampi e potendo vedere delle prove, cose che a noi non era possibile fare. Dovendo lavorare “al buio” cercando di fare il meglio possibile, dovevamo tenere basso il nero dei colori composti come marrone, viola e in generale tutte le tonalità più scure.
      È una pratica abbastanza comune e prima di parlare di razzismo si può forse discutere i fattori tecnici che hanno portato a determinate scelte. Non so in che ramo lei lavori, ma la regolazione dei fogli di stampa non è così scontata (a riprova di ciò, in giro si vedono spesso libri con colori impastati, desaturati o troppo scuri).

      In tutto questo, penso che ciò che di buono la scrittura è di essere abbastanza democratica.
      Chiunque voglia cimentarsi, oggi, può scrivere. Oggi lei ha scritto un commento al mio articolo, domani può scrivere una storia e metterci dentro tutte le cose che ritiene importanti e necessarie.
      Ciò che ritengo sbagliato invece, è che si sia creato accanto al ruolo dell’autore, quello del censore.
      Che si tratti di libri, fumetti o cinema, c’è qualcuno che crea e qualcuno che gli spiega come andrebbe fatto. Io penso che i censori dovrebbero farsi coraggio e scrivere finalmente le storie che vorrebbero leggere.
      Che poi alla fine è quello che penso spinga tutti noi che scriviamo: leggere le storie che non abbiamo ancora letto. Quindi, si armi di penna, matita (o computer se preferisce).
      Scrivere è una bella avventura e sono sicuro che le piacerà.
      Spero di aver risposto, almeno in parte, al suo messaggio.
      In bocca al lupo!

      1. Scrivo, disegno e creo storie da anni, si, è una bella avventura. Quando lo facevo in Inghilterra varie volte mi hanno chiesto di inserire personaggi di vari gruppi etnici nelle mie illustrazioni. L’ho sempre fatto con gioia, non mi sono mai sentita criticata o ingabbiata o limitata nella mia “libertà di espressione”. Non l’ho mai sentito come obbligo o come perdita. Ho capito che quella era la cultura del paese o dell’azienda e l’ho rispettata. Lo stesso negli US e in tutti gli altri paesi dove ho lavorato e vissuto. Le avventure non mi sono mai mancate mi creda. Certo, esiste anche il fattore vendite. Molte di queste inclusioni sono avvenute solo perché certi gruppi avevano conquistato potere acquisitivo e ormai erano un segmento del mercato che doveva essere considerato. È anche ovvio però che se vuoi rispettarmi come consumatore tu devi considerare anche la mia identità. Se sono di origine africana e vedo solo shampoo con nell’etichetta una donna bianca tipo Barbie sinceramente la cosa mi secca. I miei soldi li do a chi mi vede e mi considera. Anche se poi lo shampoo è lo stesso. La questione della visibilità è molto importante. Dare visibilità a certi gruppi non vuol dire nascondere o censurarne altri. Vuol dire solo condividere uno spazio che appartiene a tutti.
        Sul privilegio, no, non è necessariamente meritato o conquistato. Si nasce con questo privilegio e ci si aggrappa ad esso temendo che altri ce lo sottraggano ma fare piccole concessioni affinché tutti si sentano rappresentati e “visti” non significa perdere potere o privilegi. La questione del rancore l’ho sentita verso la figura del sensitivity reader che Lei ha relegato a persona inutile il cui lavoro consiste in darle del razzista (come osa!) mentre le competenze di questo ruolo sono ben altre. Immagino che come europeo sentirsi “patronized” da un americano sia una brutta sensazione, ammetto, l’ho provata anch’io. Sono bianca e bionda e negli US amici di origine messicana mi hanno detto che io, come Italiana, non ero “quite white”. È un’altra società, con un’altra storia. Ho alimentato rancori come Lei anch’io e poi ci ho fatto una bella riflessione. Spero che Lei finisca per riconciliarsi con questo suo collega americano e che questi scontri o malintesi diventino con il tempo ricchi e produttivi.
        La “cancel culture” non è una creazione dei liberali americani ma una polemica gonfiata artificialmente dalla destra americana per alimentare un’isteria collettiva. Oddio stanno attaccando la nostra cultura! Non potremmo più leggere Topolino e guardare Via col Vento! Dove andremo a finire?? Orrore! Ecco, questo intendo per crociate, questo accanimento a vedere l’inclusione come una minaccia. A vedere come “politically correct” (ovvero una seccatura) quello che in verità è semplicemente “correct”. Lo dico perché quando si inizia a parlare di “libertà di espressione” e di “censura” si va in un terreno complicato. Condividere gli spazi fisici o mentali che siano e permettere che altre realtà siano visibili non è una perdita, è un guadagno per tutti. Ho abitato, studiato e vissuto in un paese dove negli anni 80 esisteva ancora la censura ufficiale sui media. Lo Stato determinava e limitava quello che tu potevi vedere. Vedere. Permettere che si possa vedere la realtà da vari angoli non è censura. È il contrario di censura. E se Lei può contribuire ad aumentare questi “angoli”, lo faccia con entusiasmo e senza paure. Che cos’ha da perdere?

      2. PS: Nn ho ben capito dove si inserisca Auschwitz in questo discorso. Mi sembra che ci sia troppa carne al fuoco nel suo articolo, si spara un po’ a destra e a sinistra ma senza una grande coerenza. Ma visto che parla delle viste ad Auschwitz, a che eta lei pensa che sia appropriato visitare Auschwitz? E in base a che dati Lei stabilisce l’eta giusta?

        1. Cara L.
          Mi fa piacere leggere che anche lei scrive, quindi penso possa continuare a farlo nella modalità che più la rappresenta. Penso che nei tempi che viviamo abbiamo in generale troppa voglia di totalitarismo. Anche nelle cose piccole, abbiamo difficoltà ad accettare un’opinione diversa. Curiosamente, negli stessi tempi in cui tutti rivendicano la libertà di essere come sono, suona strano che qualcuno voglia continuare a scrivere senza subire intrusioni.
          Io non nego a nessuno il diritto di scrivere seguendo le idee che gli sembrano più appropriate. Chiedo solo che si faccia lo stesso con me e non si dia per scontato che l’autore debba seguire indicazioni politiche mentre scrive.

          Rispetto al privilegio, non capisco bene a cosa si riferisca e chi pensa io sia. Nella mia famiglia i miei genitori hanno patito la fame. Mio padre ha fatto la terza elementare e mia madre la quinta. Mio papà è andato a lavorare a 8 anni, mia mamma da ragazzina.
          Poi sono emigrati. Per cui non credo di aver ereditato nessun privilegio se non l’insegnamento che per fare ciò che volevo dovevo lavorare molto.

          Non ho nessun rancore nei confronti di nessun sensitivity reader. Ma diciamo che la collaborazione non cominciò nel migliore dei modi. Da parte mia c’è sempre stata piena disponibilità a seguire le indicazioni, dove ce n’erano. Non ho nessun problema, a dir la verità, a lavorare con nessuno: sto bene con gli americani come con i francesi o i portoghesi. In ogni paese ci sono tabù e cose da evitare che appartengono alla cultura locale generale (dalla superstizione al non voler nominare alcune cose).
          Il collega in questione ormai è andato, ho lasciato in blocco quella produzione perché troppo commerciale per me. Mi sembrava di non aggiungere nulla di necessario e di personale per cui ho ritenuto di non essere fondamentale e mi sono licenziato.

          Per il resto, come le ho già accennato, ho sempre scritto quello che mi veniva in mente. Nei miei libri si parla di tante cose: di diventare vecchi, d’amore, di solitudine. Ho scritto storie comiche e malinconiche, nei miei libri ci sono animali insoliti o comuni, famiglie e bambini con un solo genitore, ho raccontato l’amore etero e quello gay. Ma sempre senza intenzione di insegnare nulla o condizionare nessun pensiero, perché credo che questo non sia il compito dei libri e tanto meno il mio.
          Rispetto alla maggiore inclusività nei libri per bambini, ognuno ha il suo pensiero.
          Io posso dirle che alcuni editori chiedono bambine solo perché le statistiche ci dicono che ormai anche tra i piccoli, i lettori sono al femminile per il 70% circa.
          Per cui l’equazione è: le bambine leggono = facciamo libri per le bambine.

          A me non va di scrivere pensando a chi deve leggere le mie storie e penso che se i maschietti non leggono, forse dobbiamo sforzarci di offrirgli qualcosa che gli piaccia anziché abbandonarli e investire solo in quello che riteniamo essere un pubblico facile.
          Ma delle ragioni per cui ognuno fa le cose, potremmo parlare all’infinito. Ogni autore e ogni editore ha la sua storia e le sue motivazioni.
          Io cerco di scrivere in modo onesto, anche perché è l’unico modo in cui sono capace di lavorare. Poi ognuno sceglie cosa vuole leggere, in piena libertà. Se qualcuno non compra un mio libro non mi offendo.

          Quanto Auschwitz, fa parte, secondo me, di un discorso più ampio. Così come siamo spesso convinti che i libri abbiano l’obbligo di educare i bambini e di dare il buon esempio che non diamo noi come adulti, siamo convinti anche di doverli responsabilizzare, fin da piccoli, rispetto a tante delle cose che, sempre da adulti, non abbiamo risolto.
          In America, per esempio, i libri per bambini non parlano mai di temi sociali, di guerra, di povertà, di nulla che potrebbe traumatizzarli. In principio mi è sembrata una cosa assurda, poi ho pensato che forse è una scelta sensata.
          O comunque un’alternativa a considerare. L’ideale sarebbe forse una via di mezzo: i libri anglosassoni sono quasi unicamente svago, i nostri quasi unicamente impegno e morale (quelli comici sono considerevolmente di meno).

          Rispetto alla visita al campo, non mi permetto di dare indicazioni a nessuno, ma forse, non avrei fretta di portarceli a 6-8 anni e forse neanche a 10. Credo che possano studiare quel che è successo sui libri o con qualche documentario, ma non avrei fretta di portarceli a tutti i costi.
          Qualche anno fa sono stato a visitare il museo della ex-miniera di Marcinelle, in Belgio, dove nel 1956 morirono 262 minatori, di cui la maggior parte immigrati italiani. Devo dire che mi è piaciuto molto e ho imparato diverse cose interessanti anche se ero grande.

          Sapendo di farla probabilmente inorridire, le dirò che anche sull’ambientalismo insegnato ai bambini ho alcune perplessità. In questi anni ci siamo impegnati a produrre centinaia di libri per trasmettere una sensibilità ecologica che, come adulti, spesso non abbiamo o non mettiamo in pratica. Io credo che sia più semplice imparare un principio per imitazione che per trasmissione. Se vedi tuo papà lavare i piatti, poi laverai i piatti. Se vedi i tuoi fare la differenziata, la farai anche tu, senza pensarci, come si fanno le cose normali.
          In Italia (e non soltanto) ho la sensazione che i nostri sforzi per migliorare il mondo sia tutti volti a educare nuove generazioni responsabilizzate, come se ormai avessimo rinunciato a migliorare il mondo da noi. È un pensiero molto poetico quello dei bambini cambieranno il mondo, ma se ci pensa è anche un modo comodo forse, di lavarsene le mani, visto che poi ci penseranno loro. Io preferisco pensare che un po’ tocchi anche a noi di fare qualcosa per dare l’esempio, anziché appaltare l’educazione dei bambini unicamente ai libri.

          Ora la saluto, la prossima settimana ho una fiera un po’ impegnativa e devo preparare un po’ di lavoro.

          1. Lei continua a sparare in tutte le direzioni: liberta di espressione, censura, adesso addirittura totalitarismo.
            Mi sembra che lei veda la necessità di cambiare certe narrative come un intrusione, una seccatura. Ma quando le hanno mai negato il diritto di scrivere? Le hanno semplicemente chiesto di adattarsi a nuove realtà e lei l’ha vista come un intrusione e non lo ha fatto per “principio”, l’ha vista come un’offesa personale alla sua integrità, alla sua onestà addirittura. Quando invece sono semplicemente linee guida dell’azienda o del paese e che lei può scegliere (come ha fatto) di seguire o meno. Lei non ha mai parlato di imposizioni politiche, non capisco perché farlo adesso. Le hanno già imposto di cambiare la sua visione politica? Da quello che dice sul suo articolo a me sembra che le abbiano chiesto solo di dare visibilità a gruppi ai quali lo spazio è stato storicamente negato per omissione. Mi sembra che questo l’abbia ferita in maniera cosi profonda a punto di sentire la necessita di questo “rant” . E che a lei piaccia o meno anche il nostro paese sta cambiando o vorrebbe cambiare, nonostante l’attuale governo faccia di tutto per aggrapparsi al passato. Lei è nato in Italia piuttosto che in Iran, in Somalia o Bangladesh, è un privilegio e non una conquista. Un caso. Questo è privilegio. Il fatto che lei sia nato in un paese che le abbia permesso di sviluppare il suo potenziale e di mantenere quindi questo privilegio. Lei mette sullo stesso livello “insegnare” e “condizionare un pensiero”. Come se fosse la stessa cosa. I libri non servono ad insegnare? Come, scusi? Allora servono solo ad intrattenere? A me sembra che lei stia facendo molta confusione e si stia contraddicendo veramente troppo. La rappresentazione è il modo in cui i testi dei media trattano e presentano a un pubblico questioni di genere, età, etnia, identità nazionale e regionale, questioni sociali ed eventi. I testi dei media hanno il potere di modellare la conoscenza e la comprensione del pubblico su questi argomenti. Se lasciamo che siano solo i genitori ad insegnare dando esempio allora perché andare a scuola, al liceo, all’università, ai musei, alle gallerie, perché comprare libri, perché andare al cinema, al teatro? Lo si fa per il nostro sviluppo personale, per la nostra crescita, per imparare qualcosa, per farci pensare. Non solo solo dati e informazioni. Lei parla di Auschwitz e di pedagogia nel suo articolo ma poi si tira indietro e dice che sarebbe un discorso complicato. Non lo inizi allora il discorso. Se non riesce a svilupparlo, non lo inizi. 6-8 anni? Basato su cosa? Su una vaga esperienza personale? Parlare di ambientalismo significa responsabilizzare la nuova generazione per le nostre scelte sbagliate? No, vuol dire semplicemente inserire questa tematica e aiutare i ragazzi a sviluppare senso critico, pensieri, alternative, soluzioni. Si, quelle che non siamo riusciti a trovare noi.

            “…alcuni editori chiedono bambine solo perché le statistiche ci dicono che ormai (ormai!) anche tra i piccoli, i lettori sono al femminile per il 70% circa.
            “l’equazione è: le bambine leggono = facciamo libri per le bambine”.

            Le sembra un equazione sbagliata? “Solo perché le statistiche ci dicono…” Solo? Le sembra poco che si cerchi di parlare a queste bambine che leggono? Che si scrivano libri che pensano anche a loro? Le sembra sbagliato?
            Se i “maschietti” non leggono, forse dobbiamo sforzarci di offrirgli qualcosa che gli piaccia anziché abbandonarli (certo, perché storicamente I maschietti sono sempre stati abbandonati!) e investire solo in quello che riteniamo essere un pubblico facile (le “femminucce” sono un pubblico facile? In che senso? Massi, diamogli due o tre principessine che sono contente?

            Scrivere per le bambine non vuol dire “abbandonare” i bambini, che idea! Il suo articolo è la vera frittata, le sue risposte ai miei commenti non l’hanno di sicuro migliorata.

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