È da poco uscito per Carthusia un bellissimo albo senza parole che permette ai bambini di entrare in contatto con l’arte attraverso il mondo dell’illustrazione: si chiama Che capolavoro!.
L’autore è Riccardo Guasco, illustratore alessandrino fra i più conosciuti ed amati in Italia.
Guasco ha collaborato con molte aziende, testate nazionali e internazionali: dal New Yorker ad Ad, da Greenpeace a Emergency, da Rizzoli a Baldini & Castoldi, da Poste Italiane a TIM. È nel comitato artistico dell’Associazione Illustri, che organizza l’omonimo festival, ed è tra i fondatori di Inchiostro Festival, manifestazione che ospita, per alcuni giorni, illustratori, calligrafi e stampatori d’arte creando un vero e proprio laboratorio dell’eccellenza artigianale e una residenza artistica ad Alessandria.
Quale migliore occasione, che l’ultima uscita di Carthusia, per fare quattro chiacchiere con Riccardo sul suo ultimo libro, sul suo essere illustratore e anche sui suoi progetti futuri?
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Questo non è il tuo primo albo illustrato. Sei già autore de L’elefante per Topipittori.
Com’è nato Che capolavoro!? Come si è sviluppato? E che differenze ci sono state rispetto alla tua opera prima?
Che capolavoro! non è il mio primo albo illustrato ma è il mio primo silent book. È nato dal progetto in collaborazione con ABI Associazione Bancaria Italiana in occasione della 5ª edizione del Festival Cultura Creativa. Il libro è nato dalla copertina, nel senso più letterale del termine: ogni anno l’ente organizzatore del festival chiede ad un illustratore il poster della manifestazione e il tema di quest’anno, che faceva da filo conduttore per tutte le iniziative, era legato all’anno Europeo del Patrimonio Culturale, tutte quelle opere dell’arte, dell’architettura, del paesaggio, della tradizione che alimentano da sempre la cultura e la fantasia dei popoli d’Europa.
Il mio lavoro deve molto alle influenze di artisti europei che hanno partecipato alla stratificazione di questo patrimonio culturale e così ho deciso di fare del manifesto un “capolavoro” fatto di tanti “capolavori” e di raccontare poi la loro scelta in un libro.
Il modo di lavorare è stato molto più libero e svincolato dal libro precedente, ovviamente. Non c’era un testo da seguire o parole da illustrare scritte da altri, si trattava solo di giocare con le opere d’arte, aggiungere immagini ad immagini, e personalmente questa è un’operazione che ho sempre trovato terapeutica.
Hai lavorato moltissimo per la pubblicità, per testate come New Yorker, Sole 24 ore, solo per citare alcuni clienti. Le tue illustrazioni richiamano influenze cubiste e futuriste, ma anche artisti come Depero e Picasso.
Cosa ti ha guidato nella scelta di includere le opere d’arte che hai deciso di collocare in questo albo illustrato?
È stata una delle parti più divertenti delle realizzazione del libro. La scelta delle opere è stata fatta a monte da Giovanni Porcari di ABI e da Patrizia Zerbi di Carthusia, che hanno passato al setaccio non sono l’arte ma anche l’architettura, la scultura, il cinema, la musica, la danza e il design europeo degli ultimi due secoli; successivamente abbiamo scelto o aggiunto le opere d’arte con cui graficamente riuscivo a dialogare meglio e che meglio si adattavano ad entrare ad essere parte della storia.
Come lavori a una tavola?
Per Che Capolavoro! il tempo era poco, ho lavorato in maniera molto istintiva, il tutto quasi per una ventina di giorni, con poche interruzioni: sfogliavo le opere che più mi offrivano uno spunto per la storia e le inserivo nelle varie pagine che via via prendevano senso. Non ho lavorato con un canovaccio preciso o una storia in mente: la prima pagina non sapeva cosa sarebbe successo nell’ultima.
Non sono un grande illustratore “da libro”, la pubblicità mi ha insegnato la velocità e il colpire l’obiettivo con un solo colpo. Quando ho a disposizione più tempo e più pagine devo in qualche modo ricalibrarmi.
Sapevo che sarebbero stati gli occhi di un bambino a guardare per la prima volta i capolavori dell’arte europea, non sapevo che effetto avrebbero avuto su di lui né sul lettore. È stato un viaggio anche per me.
Quale vorresti fosse il fine di questo albo? Cosa ti aspetti dalla tua opera?
Mi piace immaginare quest’albo nelle mani delle persone più svariate. Spero che ognuno lo usi nella maniera più vicina alla propria inclinazione. Il vero messaggio di questo libro, o meglio, uno dei messaggi che ho voluto passare, è che le opere d’arte arrivano a noi sempre vestite con un’aura di intoccabile sacralità, con una chiave di lettura unica e molte volte di difficile interpretazione.
Le opere d’arte invece devono ispirarci e farci avere nuove idee, devono poter essere guardate, capovolte, ricopiate, modificate perché le idee sono tante e diverse, e perché ognuno di noi è diverso e unico, per questo le opere d’arte devono essere punti di partenza e non di arrivo di un percorso. Se non si può giocare con l’arte, che è il luogo dell’immaginazione, allora con cosa giochiamo?
Che tipo di rapporto pensi che abbiano i bambini con l’arte?
Non so cosa realmente pensino i bambini dell’arte, probabilmente per loro è una cosa normale come mangiare o camminare, rientra nei loro bisogni primari quello di esprimersi e di andare alla ricerca di un modo per farlo, per affermare, a se stessi e al mondo, che esistono, senza ancora confrontarsi e scontrarsi con il concetto di “giudizio” che rovinerà e spegnerà molti dei loro sogni.
L’arte per un certo periodo ha scoperto l’immediata ed onesta bellezza del primitivismo che vedeva l’artista assecondare le sue più personali e profonde emozioni in gesti istintivi, immediati e sintetici. Ecco, forse nessuno più di un bambino può aspirare ad essere realmente “primitivo” di fronte all’arte e alla scoperta di questo linguaggio.
Se dovessi insegnare storia dell’arte, come lo faresti?
Sono fortunato perché ho sempre avuto ottimi insegnanti di storia dell’arte, dalle medie all’università, e l’ho capito non tanto perché ora ricordi a memoria opere, tecniche, autori o date, ma quanto perché mi è rimasta la passione di andarmele a cercare. Ho capito che il valore non viene tanto da quello che insegni ma da come lo insegni, e quindi se dovessi insegnare storia dell’arte la insegnerei con passione.
Che studente d’arte eri tu, da bambino? In una tua vecchia intervista raccontavi che la tua insegnante d’arte delle medie è stata tra le prime a credere in te.
Ero, diciamo, un 7, un’ala destra. Non proprio genio e sregolatezza (odio questi stereotipi artistici) ma una buona dose di fantasia e creatività, con metodo e silenzio, senza la visibilità e il fiuto del voto dell’attaccante, là, al primo banco con il braccio alzato a chiedere l’assist, ma neanche la follia e il disinteresse di quelli dell’ultimo banco. Spirito di sacrificio e l’indispensabile per tenere senza fatica il risultato fino a fine quadrimestre e, quando la situazione si faceva difficile, grandi allunghi in fascia per arrivare al gol, sempre meritato.
Penso ancora con molto affetto a tutti i miei insegnanti d’arte che mi hanno sempre consigliato di proseguire questa strada, ma con ancora più affetto e ammirazione oggi penso ai miei genitori che me l’hanno fatto fare davvero.
Qual è stato il momento in cui hai capito che fare l’illustratore stava diventando una professione?
Sono stati due anni, orientativamente tra il 2012 e il 2013, in cui, parallelamente al mio lavoro da insegnante presso una scuola di formazione, ho cominciato, la sera, a prendere qualche piccola committenza e ad affinare un po’ quelle che erano le tecniche e i riferimenti che avevo imparato in Accademia e che stavo riscoprendo.
All’interno di questi due anni forse il momento vero e proprio è coinciso quando sono stato scelto per illustrare la campagna di ENI Musei aperti, ma non esiste un punto vero e proprio dopo il quale tutto cambia, è sempre un “periodo” e una somma di punti.
Nel Manuale non illustrato per illustratori, pubblicato dall’Associazione Illustri, parlando di stile dici: «Lo stile arriva quando uno smette di cercarlo e guarda a se stesso e a ciò che ha imparato. E bisogna essere poi consapevoli che inevitabilmente muterà, esattamente come ciascuno di noi cambia nel corso del tempo».
A partire da questo ti chiedo: quand’è che tu hai trovato il tuo stile? E com’è cambiato?
La questione dello stile è diventato un problema spinoso ultimamente, è la prima cosa che uno cerca per essere riconosciuto, quando invece dovrebbe essere l’ultima cosa che arriva quando ti conosci.
Io ricordo di aver scelto di non occuparmi più dello stile e di aver cominciato a pensare che l’unica cosa che contava era disegnare, concentrarsi sul soggetto rappresentato, e ridisegnare. Disegnando tanto e tutto, e allontanandosi dall’idea di essere riconosciuto, lo stile compare come naturale sintesi di questo cammino.
Com’è cambiato il mio stile non lo so, o meglio non l’ho pianificato ancora e quindi non lo vedo.
Avere un stile molto definito, qual è il tuo, non è stato un problema nell’affrontare opere d’arte molto diverse tra loro — e dal tuo “mondo” — come quelle di Che capolavoro!?
È come ricevere uno spartito e suonarlo con uno strumento diverso da quello per cui è stato creato. Non è stato un problema, basta solo accordarsi.
Hai un Tumblr da ben 8 anni! Ed è una specie di compendio della storia dell’arte e della grafica. Come funziona? Gli “appunti visivi” che prendi lì cambiano in base al lavoro o ai lavori che stai portando avanti?
Rik-bside è una delle miniere di immagini a cui tengo di più, ogni tanto me la vado a scorrere e riguardare perché quello che ho raccolto lì sopra l’ho scelto per qualche motivo: un dettaglio, un colore, una risata, una linea…
In realtà non è strettamente collegato ai lavori che faccio, non è una vera e propria moodboard per un lavoro, quanto proprio l’esigenza di non perdere alcune immagini che mi hanno colpito.
Per me è come visitare un museo virtuale che non riuscirei a raggiungere nella realtà, e passo un’oretta a guardare immagini. Molte volte alcune di quelle immagini, a distanza di anni, mi servono per qualche lavoro e le vado a riguardare.
Nella tua carriera hai disegnato tantissimi ciclisti ma in Che capolavoro! non ce ne sono, neanche sullo sfondo. Però il tuo prossimo libro, se non sbaglio, parlerà proprio di biciclette.
Le biciclette nei miei lavori sono già molto presenti, un libro senza biciclette è come un giorno di digiuno, ha un effetto depurativo e alleggerisce un po’. Non voglio che la bicicletta diventi un marchio di fabbrica o un simbolo per me. Ho iniziato la mia carriera con le biciclette, spesso mi capita di lavorare in ambiente ciclistico, ma ci sono tantissimi altri soggetti o concetti che posso esprimere al di fuori di quello delle due ruote.
Mi spiace quando quello che fai prende il sopravvento su quello che sei. Spero di non arrivare mai ad essere “quello delle biciclette”, senza nulla togliere al mezzo ovviamente!
Il prossimo libro invece, edito da Topipittori e realizzato insieme Matteo Pelliti, si chiama La bicicletta gialla e parla proprio di una bicicletta, quella gialla, che rappresenta i sogni e le emozioni delle “prime conquiste” di un bambino.
È un libro dove ho potuto sperimentare molto linguaggi e forme nuove, proprio forse per cercare di raccontare la bicicletta sotto un’altro punto di vista!