
Nel momento in cui qui in casa abbiamo iniziato a insegnare l’alfabeto a nostra figlia abbiamo utilizzato una lavagnetta magnetica: l’abbiamo messa lì tra i suoi giochi, attorno ai due anni, senza la pretesa di insegnarle alcunché ma semplicemente con l’intento di farla familiarizzare con quei simboli che più avanti, una volta associati a un suono, a una struttura, a un concetto concreto o astratto, hanno iniziato a rivoluzionare le sue capacità di comunicazione.
Basta la semplice esca giocosa e “magica” del magnetismo e della possibilità utilizzare serpenti (S), strane forme a zigzag (Z, N), casette (la A), montagne (la M e la W), stanghette con la panza (P, D) o addirittura due (B) per realizzare composizioni ancora più straordinarie, per innescare (o comunque facilitare) la catena di associazioni che, man mano che il pupo accumula esperienze e può contare su capacità cerebrali sempre più complesse, porteranno un giorno non lontano alla lettura e alla scrittura.
Non che quello della lavagnetta sia l’unico metodo. Anzi. Ricordo ancora, seppur vagamente, le mie manine battere incerte sulla vecchia macchina da scrivere dei miei, eccitato per quel tlack, tlack, tlack e affascinato da lettere che ancora non sapevo bene a che potessero servire.

Un giovane papà designer, per esempio, ha deciso di utilizzare il cibo e le sue capacità di progettista grafico per creare coi cibi preferiti da sua figlia tutte le lettere dell’alfabeto, pubblicando poi su Instagram i risultati (grande debolezza dei genitori al tempo dei social, me compreso: usare — perché di questo si tratta — i propri pargoli per dimostrare al mondo di essere dei Fantastici Genitori), realizzando di fatto una serie di “tipo-grafica commestibile”, inaugurata lo scorso gennaio con la A di Apple e arrivata finora alla S di Sunflower Seeds. Con tanto di hashtag: #AtoZoë.
A come Apple
B come Bacon
C come Cookie…
















