«Volevo trovare il segreto in un fiore»: la scrittrice e illustratrice Kitty Crowther è la protagonista del nuovo numero di Oblò

Su gentile concessione dell’Associazione Culturale Hamelin, pubblichiamo un estratto dal quinto numero di Oblò, collana di monografie su grandi autrici e autori per l’infanzia.
Protagonista di questa nuova uscita è l’autrice belga Kitty Crowther, autrice di decine di albi tradotti in tutto il mondo e vincitrice di numerosi premi.
Il testo che segue, firmato da Ilaria Tontardini, apre Oblo n.5, che si può trovare nelle librerie specializzate oppure acquistare online.


Ci sono autori e autrici che più di altri sanno arrivare esattamente al cuore delle cose, quel punto di crisi da cui si scatenano reazioni e sensazioni precise e intense. Lo fanno come bravi giocatori di freccette che nella velocità di un lancio raggiungono il centro esatto del tabellone, oppure come ragni che sapientemente costruiscono un castello di fili così perfettamente intrecciati da ammaliare la preda con abbagliante, seppur letale, bellezza.
Kitty Crowther si annovera fra questi pochi artisti, oscillando fra le due modalità, l’esattezza veloce del dardo e il lavorio impassibile e lento del ragno. Nel suo breve testo che accompagna il lussureggiante albo sulla vita del pittore simbolista Jan Toorop, Jan Toorop. Le chant du temps, l’autrice attribuisce una frase al maestro olandese: “Quando si fissa per molto tempo una cosa i colori appaiono. L’invisibile non è altro che un’estensione del visibile”. La citazione sembra modellarsi perfettamente sull’universo di questa narratrice per parole e immagini.

La prima assonanza è puramente “visiva”: dall’inizio della carriera ad oggi il colore, nei racconti di Kitty Crowther, ha preso sempre più spazio; è un colore-segno-disegno che, senza mezzi termini, plasma mondi e personaggi, definisce ambienti e oggetti. Non è mai mimetico. Va oltre la descrizione, perché chi lo traccia ha guardato talmente tanto i soggetti che racconta da averli veramente visti. Emanano qualcosa, un riflesso, un bagliore o una fluorescenza, che rivela la vibrazione degli esseri viventi, dell’acqua, delle donne, delle foreste. Questa vibrazione — ben lontana dal puro compiacimento stilistico — è frutto del tempo e della relazione intima e profonda che Crowther ha con il mondo, di cui capta e poi reinterpreta le frequenze più sottili, quelle che occhi, orecchie e nasi normali non colgono e di cui sa “comprendere” la potenza. Per accorgersene basta prestare attenzione al paesaggio e agli elementi naturali che costellano le sue narrazioni, come l’acqua, i tramonti, i piccoli insetti e gli animali (che si muovono e intensificano il senso del brulicare nelle illustrazioni) e tutte le forme di infiorescenze, terrestri e marine, che si insinuano in qualsiasi storia.

What should I do today? (and the wish stone) (© Kitty Crowther | courtesy: Hamelin)

«Le pietre, nere, rosa, azzurre, grigie, che dicono che erano già li, ancor prima che il segno le delineasse sul foglio, ancor prima che un personaggio le toccasse con la pianta del piede.»

Difficile riconoscere una vera tassonomia floreale, perché ogni fiore è la ricomposizione di una immagine di fiore a cui se ne mescolano altre; nonostante tutto, questa botanica privata e parallela è plausibile, le piante sembrano fatte di carne (sovrapposte spesso a organi e sistemi vitali che presiedono il funzionamento del corpo umano), compartecipano a qualsiasi evento, di cui sono un po’ spettatrici, un po’ attrici comprimarie. Assieme ai vegetali stanno le pietre, nere, rosa, azzurre, grigie, che dicono che erano già li, ancor prima che il segno le delineasse sul foglio, ancor prima che un personaggio le toccasse con la pianta del piede. Raccontano una memoria, una eco che si sente in tutte le narrazioni di Crowther, come se le storie portassero sempre il suono — o il riverbero luminoso — di qualcosa che c’era già.

Torniamo a Toorop. Quanto fino a qui detto mostra la capacità di mettersi in relazione con ciò che non si vede, che per Toorop deriva primariamente da quel che si manifesta e c’è sempre: il visibile. Trovo la gerarchia di questa filiazione molto interessante e molto “crowtheriana”. Uno dei motivi per cui la sua opera viene spesso citata (e anche snobbata) è la capacità di toccare i “grandi temi”. Pur riconoscendo la verità dell’affermazione, per fare giustizia alla caratura dell’artista si deve constatare che questa sensibilità non ha le sue radici in un sistema valoriale di cui fare sfoggio, ma nel visibile, nell’ordinario. Uno spazio precario, fragile, che Kitty Crowther interroga continuamente sedotta dalla sua imperfezione e dal suo potenziale di sorpresa.

Annie du lac, Pastel – L’école des loisirs, 2009 (© Kitty Crowther | courtesy: Hamelin)

«È però l’imperfezione a conferire ai personaggi la loro unicità perché solletica la curiosità, stimola reazioni vere, fa venire all’artista la voglia di ascoltare le sue creature, di conoscerle meglio per raccontarne le vicende.»

Ne è un esempio la passione e la compassione per ciò che potremo definire la bruttezza dell’umanità, spesso a contrasto con la perfezione fiorente della dimensione animale e vegetale. I volti e i corpi degli uomini e delle donne, dei bambini e delle bambine, perfino degli dei, sono irregolari, goffi, storti: Annie du Lac “ha un grande naso e dei grandi piedi. Se si facesse pendere un filo dalla punta del suo naso arriverebbe perfettamente alla punta delle dita dei piedi”; Leslie de L’enfant racine è una donna enorme; Méduse è un groviglio di capelli da cui spunta un naso a becco e la folla che la circonda sembra un campionario lombrosiano; il bambino di Dentro me è un mostrino intabarrato.

È però l’imperfezione a conferire ai personaggi la loro unicità perché solletica la curiosità, stimola reazioni vere, fa venire all’artista la voglia di ascoltare le sue creature, di conoscerle meglio per raccontarne le vicende. Si chiama di nuovo in causa lo spettro di un fremere, di un’inquietudine esistenziale — condensata in un piccolo dramma come un’ala rotta di Mine o in una tragedia come Annie du Lac che sprofonda in mare con la pietra che lei stessa si è legata al piede — da cui nessuno dei personaggi, anche quelli più apparentemente pacificati o giocosi, è esente. Adulti o infanti, reali o fiabeschi, umani o animali, si mostrano in una continua e vitale ricerca di senso con cui imparano a convivere. Questo è già tutto in ciò che vediamo, ci indica Crowther. Ecco perché l’autrice, prendendo a prestito ciò che lei stessa diceva della creatrice dei Mumin Tove Jansson, è libera e non bara con i bambini: racconta e mostra loro con trasparenza e schiettezza, mai con brutalità, la solitudine, la disperazione, l’abbandono, l’amore, la paura, la grazia, l’incapacità di capire, la gratitudine, l’attesa, il distacco. Dentro quegli stati emotivi lei sta con le sue creature, le accompagna e con bienveillance le sorveglia, portandole alla luce.

Disegno inedito (© Kitty Crowther | courtesy: Hamelin)

«Il “moto verso” caratterizza tutte le sue narrazioni, un attraversamento fiabesco che va da un punto di oscurità ad un punto più luminoso o più terso.»

Il “moto verso” caratterizza tutte le sue narrazioni, un attraversamento fiabesco che va da un punto di oscurità ad un punto più luminoso o più terso. Le fittissime foreste buie piene di radici indiavolate e il sottoterra de L’enfant racine, la cameretta inghiottita dal nero di Grat grat cirp splash, il regno dei morti de La visite de la petite mort, la notte stellata de L’omino e Dio, il vuoto silenzioso di Io e niente, il freddo lunare dell’incipit di Mère Mèduse: da qui si nasce, a volte con un parto reale, di cui vediamo l’atto, come per la piccola Irisé; si viene alla luce guardando in faccia l’immensità di ciò che sta dentro di noi e fuori. I modi di questo passaggio sono tutti differenti, tanti quanti gli esseri che animano questi albi e ancora di più.

Questo andamento non può non ricordare quello della fiaba. Il ritmo è sempre pacato e non ricalca mai il tempo reale, conserva la vaghezza temporale e spaziale (i paesaggi sono esattissimi ma non somigliano a nulla di conosciuto) del tempo della finzione. Anche nelle avventure per più piccoli, famigliari e simili alla consueta scansione quotidiana — penso alle uscite al cinema o al museo di Poka e Mine o alla giornata che scorre nella stanza di Alors? — il senso del tempo si dilata e modella sul “c’era una volta” e di questo segue le regole, i riti e i passaggi. La veridicità dell’universo narrativo si regge sul patto fra autrice e lettore, per cui ci si infila a letto (altro oggetto feticcio che assieme alla finestra torna in tutti gli albi), il posto dove si dorme e si aspettano le fiabe, e si comincia ad ascoltare.

Nel loro percorso nel bosco, i protagonisti delle storie si trovano spesso di fronte a un baratro. Non è solo il picco del viandante di Caspar David Friedrich, seppure l’attitudine filosofica del personaggio contemplante è tipica di Crowther, ma anche uno scoglio più viscerale, nascosto, segreto. Stare su quel luogo liminare è il compito delle storie. Quando ci si riesce, quando non si soccombe davanti all’indicibile, allora ci si può riposare, ci si scopre il capo o il volto (un gesto emblematico mutuato da Max de Il paese dei mostri selvaggi che si incontra in quasi tutti i testi), ci si guarda e ci si fa guardare.

Mère Méduse, Pastel – L’école des loisirs, 2014 (© Kitty Crowther | courtesy: Hamelin)

«Ogni storia è animata da grandi contrasti ma mai dicotomici: tutto e il suo contrario possono convivere e questo fa parte del mistero che i racconti portano con sé.»

È interessante notare come l’atteggiamento verso la fragilità sia sempre di grande tenerezza, come quello della mamma Orsa che legge in Storie della notte, ma mai consolatorio. La immaginiamo guardare dall’alto le sue storie e tifare con forza per i suoi, ma mai intervenire per spostare un ostacolo, semplificare una questione intricata, rivelare una soluzione. Questa attitudine genera una malinconia diffusa che avvolge alcune narrazioni in cui il senso di ineluttabilità degli eventi va di pari passo con lo svolgersi degli stessi. Ma può implicare anche il riso, la leggerezza che fa parte della compassione che spesso Crowther si concede.

Ogni storia è animata da grandi contrasti ma mai dicotomici: tutto e il suo contrario possono convivere e questo fa parte del mistero che i racconti portano con sé. Il protagonista di Dentro me, dopo essersi fatto mangiare dall’orco, si ritrova in un paese silenzioso in cui pensava di “trovare il segreto in un fiore”. Lo troverà altrove, eppure il fiore che contiene il mistero è la chiave dell’intera opera dell’artista. Che fino al fiore ci porta e lì ci lascia a confrontarci con il mistero.

Lo si intravede in unico intenso momento, quando finalmente il colore appare.

Ilaria Tontardini

Docente a contratto di Storia dell’illustrazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2005 fa parte di Hamelin Associazione Culturale per cui segue i progetti dedicati alla ricerca sull’illustrazione e il fumetto (tra questi BilBOlbul), la creazione di mostre e l’ambito del visivo.

Storie della notte, Topipittori, 2017 (© Kitty Crowther | courtesy: Hamelin)
Disegno inedito (© Kitty Crowther | courtesy: Hamelin)
Poka & Mine. Au cinéma, Pastel – L’école des loisirs, 2006 (© Kitty Crowther | courtesy: Hamelin)
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