Nicola Magrin, acquerello della serie “Day Lake”, 2013 (fonte: nicolamagrin.com)

Di montagne, lupi, acquerelli, imprevisti e il richiamo della foresta: intervista a Nicola Magrin

Nicola Magrin nasce a Milano nel 1978, nel 2004 si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Brera con una tesi su Miquel Barceló. Dopo una serie di mostre e collettive, nel 2011 approda al mondo dell’editoria dove cura per diverse case editrici numerose copertine di libri. Celebri sono l’opera omnia di Tiziano Terzani per la Tea e quella di Primo Levi per Einaudi, per cui elabora anche la copertina de Le otto montagne di Paolo Cognetti, con il quale stringe una forte amicizia. Amicizia che lo porterà a condividere con lui due viaggi in Nepal.

L’ho intervistato a settembre, proprio poco prima della partenza per il suo secondo viaggio, dal quale è appena tornato, in tempo per inaugurare il 9 novembre presso la Galleria Nuages la mostra su Il richiamo della foresta di Jack London, da lui illustrato ed edito da Edizioni Nuages.

* * *

Ho letto un’intervista in cui ti definisci un “pittore prestato all’editoria”. Ti andrebbe di raccontarmi come si forma il Nicola Magrin pittore e come matura la sua visione artistica?

Ho quarant’anni e sono venti che faccio questo lavoro, che per me è una forma di espressione personale, il mio modo di comunicare. Dopo il Liceo Classico ho fatto l’Accademia di Brera a Milano e mi sono reso conto che volevo fare questo per lavorare, che volevo “camparci”, e che quindi avevo bisogno di trovare un mio linguaggio.

Durante gli anni di Brera c’erano tanti ragazzi e tante ragazze — chi dipingeva, chi faceva altro — ma spesso era tutto un po’ uno scimmiottare, uno scopiazzare i maestri che ti porti nel cuore. E di persone che riescono a uscire da quello, che riescono ad avere davvero un loro linguaggio, che diventano riconoscibili, ce ne sono poche.
Io la sensazione di esserci riuscito ce l’ho avuta sei anni fa, con l’editoria. Ovviamente posso non piacere, oppure posso incuriosire, però mi dicono «Tu sei tu». Che se entri in un libreria e ci sono dei libri fatti da Nicola Magrin, riconosci la copertina. Per me, questa, è una cosa stupenda.

A questo proposito, quando ho assistito alla proiezione del video di Chakra de Le luci della centrale elettrica, mi è piaciuto subito, ho avvertito questa specie di richiamo, proprio perché mi sembrava qualcosa di familiare. Poi ho scoperto dopo che era tuo e sono stata contenta di questo, perché ho ritrovato in effetti qualcosa che legava, anche se era un linguaggio lievemente diverso perché io assistevo ad una performance rispetto ad un lavoro finito.

Sì, infatti è nata così, ed è stata un’esperienza molto bella. So che tutti erano contenti, compreso Vasco Brondi.
Però questa collaborazione è nata grazie all’amicizia con Paolo Cognetti, lo scrittore. Con Paolo ho fatto la copertina de Le otto montagne. Vorrei parlarti di lui prima di arrivare a Vasco perché comunque Vasco viene da Paolo, e mi sembra giusto cominciare da lui.

(fonte: facebook.com/pg/nicolamagrinofficial/)

A questo punto raccontami come si sono incrociati i vostri cammini e dove vi stanno portando.

Paolo l’ho conosciuto a Monza, dal vivo, che presentava Il ragazzo selvatico, un piccolo libro, un diario — uscito per Terre di Mezzo, una casa editrice milanese — dove raccontava come lui a trent’anni avesse deciso di fare un cambiamento nella vita, di mollare la città e anche una serie di illusioni che la città gli aveva portato, anche lavorativamente, e andare a vivere in montagna, in una baita, a cercare la sua “wilderness”, a cercare i maestri che lui ha amato, da Rigoni Stern ad altri che conosce meglio di me.

Questo librino lo presentava in varie librerie e un giorno è arrivato anche a Monza. Una mia amica, che lavorava nella libreria dove Paolo avrebbe presentato il libro, mi disse: «Nicola, vieni a sentire questo ragazzo, che è un mio amico e che secondo me ti piace, vi trovereste come persone, perché anche tu abiti in montagna, passi le estati in montagna».
E quindi sono andato, e ho conosciuto questo ragazzo con i capelli un po’ biondo-arancione- rossiccio col barbone, tra un Hemingway e un irlandese errante, e ci siamo trovati molto bene. All’epoca avevo fatto una mostra in montagna, a Sondrio, sulla vita in alpeggio, che è una realtà che conosco molto bene, perché ho vissuto nelle mie estati da montanaro. Avevo dipinto ad acquerello alpeggi, baite, mucche, pastori, scalatori, contadini, gente di montagna, la montagna vissuta sui 1.500/1.600 metri che è quella che vivo io.

Quando ho regalato a Paolo il catalogo lui — me lo ricorderò sempre — mi ha detto: «Cavolo, che bei lavori! Avresti dovuto farmi tu la copertina di questo piccolo libro!».

Nicola Magrin, tre acquerelli della serie “Uomo e Montagna”, 2011
(fonte: nicolamagrin.com)

Avevi già fatto copertine?

Ai tempi non avevo ancora iniziato con l’editoria e quindi l’idea di fare la copertina per un libro, per me, era un sogno ma non si era ancora avverato.
Dopo un classico abbraccio e una stretta di mano ci siamo detti: «Sì, rimaniamo in contatto». Ma poi mi sono reso conto che non c’eravamo nemmeno scambiati il numero di telefono. È stato uno di quegli incontri molto belli ma evanescenti.
A quel punto, però, ho comprato il suo libro, me lo sono divorato. Come ho già detto è un diario, non è un romanzo, un punto di partenza per poi arrivare al suo Le otto montagne, uscito due anni fa.

E come vi siete ritrovati tu e Paolo?

Lui negli anni mi ha seguito perché poi ho iniziato a collaborare con Einaudi, a fare le prime copertine, e sono usciti i primi libri: prima Robert Macfarlane, Le antiche vie, poi tutto Primo Levi. Poi è arrivata la Tea con Terzani. Sono autori che anche Paolo amava. Mi manca Rigoni Stern, che Einaudi però non mi ha voluto affidare, probabilmente perché avevo appena fatto Primo Levi e sono due autori “big” e anche molto vicini.

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Poi Monica Aldi — che si occupa dell’ufficio iconografico dell’Einaudi ed è sempre lei che mi chiama quando c’è una copertina da fare — un paio di estati fa mi chiama e mi dice: «Nicola, c’è un libro molto importante, su cui stiamo investendo tanto, di uno scrittore con cui secondo me vi siete conosciuti. Si chiama Paolo Cognetti».
Paolo non l’avevo più visto dopo quell’incontro, e le copertine dei suoi lavori precedenti le aveva fatte, per minimum fax, Alessandro Gottardo, in arte Shout, che secondo me è il più grande illustratore italiano, che tutti copiano, italiani compresi, ma nessuno è bravo quanto lui.

Così, grazie a Monica Aldi e alla copertina, ho cominciato a costruire un nuovo rapporto con Paolo. Ed è stato bellissimo perché è nata un’amicizia verissima, stretta, che ci unisce.
Figurati che la settimana prossima partiamo per il Nepal per la seconda volta assieme. Vedremo cosa ci porterà questo viaggio.

“Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya”, di Paolo Cognetti, copertina di Nicola Magrin, è in uscita a novembre 2018
(fonte: Einaudi)

Anche artisticamente?

Il viaggio dell’anno scorso è diventato un libro, Senza mai arrivare in cima, che uscirà a novembre, sempre per Einaudi. Io ho fatto la copertina, dove ci siamo io e lui di spalle, in cima a un monte, con un cane trovatello che avevamo incontrato sull’Himalaya, tu pensa, chiamato Kanjiroba, dal nome di questa montagna nepalese, che era davanti a noi, la vedevamo. Ci è apparso questo cane, questo mastino nero peloso, il tipico cane tibetano.

Abbiamo visitato il Basso e l’Alto Dolpo, a ovest del Nepal, quasi al confine col Tibet, uno degli ultimi posti inviolati, nel senso che non essendoci strade carrozzabili si fa tutta interamente a piedi. Infatti abbiamo percorso, mi sembra, 300 km a piedi in un mese, tutto tra i 4.000 e i 5.000 metri (quindi abbastanza massacrante!).
A gennaio è uscito un numero di Meridiani Montagne, una rivista molto bella, tutta dedicata al nostro viaggio.

E quest’anno dove andate?

Nella parte diametralmente opposta, a est, oltre l’Everest, al campo base di questa montagna che si chiama Kangchenjunga. Partiamo un mese, torneremo i primi di novembre. La spedizione è guidata da Adriano Favre, Capo del Soccorso Alpino della Val d’Aosta, la valle dove vive Paolo Cognetti.
Siamo in otto, un gruppo di amici, e partiremo per questa nuova avventura. Poi se ci sarà un lavoro, come si fece l’anno scorso, questo per ora non lo sappiamo. Sappiamo solo che quando torneremo in Italia, a novembre avremo la presentazione del libro di “Senza mai arrivare in cima”. Quindi sarà comunque bello ed emozionante.

Torniamo a Vasco Brondi e a Chakra.

È nata così: Paolo qualche mese fa mi chiama dicendo: «Mi ha contattato Vasco Brondi, è un cantante italiano molto, molto bravo. Ti chiamerà perché vuole proporti qualcosa. È una persona carinissima, che io stimo e seguo. Mi piace molto come cantante».
Dieci minuti dopo arriva la telefonata di Vasco, gentilissimo, che dice: «Ho visto i tuoi lavori, mi piacciono moltissimo, ho visto la copertina di Paolo, mi piace tanto, ho letto il libro. Hai mai fatto video o qualcosa di simile?». Io gli rispondo di no, però, siccome sono una persona molto ottimista, molto propositiva, e le novità mi piacciono molto, ho detto «Proviamo!». Tieni conto che sono negato coi computer, e non so neanche usare la telecamera.

Che tipo di lavoro c’è stato?

Ho lavorato con Michele Bernardi, che ha già diversi video all’attivo ed è davvero un’ottima persona. Io gli ho suggerito semplicemente di escludere l’intervento invasivo dell’animazione, per evitare che diventasse una sorta di cartone animato.
Quindi ho fatto una carta di 3 x 1,20 m e, ascoltando questa canzone che mi ha emozionato, questa Chakra, ho cercato di buttare giù in acquerello, in modo molto veloce la traccia di un racconto, delle scene che questa sua canzone mi suggerivano. E alla fine se la srotoli tutta, e la vedi come l’hai vista nel video che Michele Bernardi ha montato, sembra già una storia con lui che cammina, il vulcano, l’eruzione, la mitica Volvo Polar, la montagna, l’agave. Insomma, è piaciuta tanto. Vasco è rimasto talmente entusiasta che quando poi c’è stato il Salone del Libro di Torino, anche grazie al suo agente, Michele Annechini, mi ha chiamato per collaborare.

Nicola Magrin, tre acquerelli della serie “Di Notte”, 2014
(fonte: nicolamagrin.com)

Ma comunque con Vasco hai molti punti in comune. Ho visto le opere della tua mostra ad Aosta e ci sono moltissimi quadri di cieli stellati di fronte ai quali si stagliano queste figure minuscole, questi infiniti.
Quindi c’è qualcosa che vi lega ancora prima di questo video.

Sì, come con Paolo. Ci sono quelle persone che alla fine si trovano, nella vita, che magari vedi solo due volte all’anno ma con le quale c’è un’assonanza, c’è un legame, un filo rosso che ti unisce.

Ecco il filo rosso, un richiamo molto orientale.

È vero.
Come ti dicevo, per il Salone del Libro Vasco ha fatto un concerto molto bello alle Fabbriche OGR. Annechini mi ha chiamato e mi ha detto: «Ti andrebbe di fare una performance con Vasco?»

Ne ho visto dei video amatoriali su YouTube. In uno, Waltz degli scafisti, si vedeva proprio una tua performance con questo tuo bellissimo disegno. Una nube da cui si protendevano dei personaggi che cercavano di prestare soccorso ad altri individui che si trovavano sul barcone, naturalmente migranti. Sotto, una delle tue balene, ad osservare la scena. Un lavoro molto evocativo.

Per me fare una performance dal vivo era una novità, ma non ero in ansia, anche se non avevo preparato nulla. Sono arrivato proprio così, “vergine”, con la mia lucina, i miei colori, i miei pigmenti naturali. E anche loro non è che avessero molte idee. «Oddio, dove ti mettiamo. Vicino a Vasco, oppure no?».
C’era uno schermo, sul quale venivo proiettato. Di dieci canzoni ne ho fatte sei, mi sembra. Ed erano relativamente brevi, quindi in due minuti fare un’acquerello e pensarlo non è che sia proprio semplice.
Però è venuto bene, perché era talmente fresco che era molto poetico. Vasco era contentissimo. E devo dire che anche il pubblico, nel momento in cui ha capito che c’era questo piccolo omino vicino allo schermo, che stava facendo quei disegni che all’improvviso si animavano in grandissimo, e si è reso conto che non erano registrati o fatti prima, magari in una stanza, al buio, di nascosto, ma che li disegnava sul momento quest’omino, che ero io, lì davanti a loro, a quel punto si è creata un’emozione forte. C’era un’energia talmente bella e talmente forte che, se dovesse ricapitare, lo rifarei molto volentieri.

Vasco Brondi / Le luci della centrale elettrica, “2008/2018 tra la via Emilia e la Via Lattea”, 2018
copertina di Nicola Magrin

Per Brondi hai anche realizzato la copertina del nuovo disco.

Sì, e pensa, a questo proposito, che coincidenza. Tramite Annechini, il suo agente, mi ha chiamato la direttrice della casa editrice Add, di Torino, che aveva visto il mio lavoro tramite Vasco e voleva propormi un libro stupendo di Patrick Chamoiseau Fratelli migranti, che ti consiglio.

Riguardo alla copertina del disco di Vasco, sono molto contento perché se penso che la prima gliela fece il grande Gianni Pacinotti in arte Gipi… A me piace parecchio Gipi.

Anche a me, è uno dei miei fumettisti preferiti. Poi la copertina di “Costellazioni” gliel’ha disegnata Toccafondo…

Sì, anche Gianluigi Toccafondo è bravissimo.
Poi mi fa molto piacere perché penso che sia un album con cui Vasco voglia un po’ chiudere un cerchio. Allora essere arrivato in questa parte della sua vita, con la mia sensibilità e la mia delicatezza — e lui è entusiasta di quello che sto facendo —, mi fa molto piacere. È come partecipare ad un giro di giostra.

E poi sai cosa penso? Che quando uno ha la fortuna di fare il mio lavoro, la cosa più bella non è solo stare chiuso nel tuo studio a dipingere, perché io faccio il pittore, ma è proprio il fatto che ogni tanto ti capita la fortuna di avere questi incontri, che secondo me, umanamente parlando, al di là che ci possa essere un seguito lavorativo, sono stupendi. Ti trovi a confrontarti con persone che usano il cuore, prima di tutto, e la testa. E anche dopo una giornata assieme, un pranzo, una bevuta, una camminata in un bosco o in una città, ti senti bello carico, energico per poi tornare in studio e continuare col tuo lavoro. Ecco, è una sorta di linfa vitale. Che sia il cantante, che sia l’attore, che sia lo scrittore.

Detto questo, sono anche felicissimo di andare poi in montagna, nella mia baita, e stare con i miei amici contadini. Ho bisogno di entrambe le cose. Ho bisogno della vita di città, ma anche bisogno della vita a contatto con la natura.

Quindi “mondano e mistico”, per citare l’ultima canzone di Vasco Brondi. Anche tu hai “una cassa dritta nell’anima”.

Sì. Credo di sì.

Per quanto riguarda il tuo linguaggio espressivo, mi piacerebbe sapere cosa ti dà l’acquerello rispetto ad altre tecniche. Avevo sentito un’intervista che ti avevano fatto per la mostra La traccia del racconto, ad Aosta, e avevi detto che l’acquerello era una forma imperfetta di espressione. Ti piaceva il fatto che fosse una sorta di scommessa con questo strumento, che ti poteva portare anche da un’altra parte.

Sì, c’è molto “imprevisto”, che è la cosa più bella. Ho provato altre tecniche, però non ho neanche voluto insistere così tanto, con quelle, perché ho visto che era “lei”, la tecnica dell’acquerello, che mi aveva scelto.
Come acquerello intendo una pittura ad acqua, molto veloce dove spesso io lavoro mischiando delle chine o dei pigmenti naturali, quindi delle terre, comprando anche degli acquerelli della Windsor & Newton. Però mi creo — a differenza di tanti illustratori che ci sono nel panorama italiano, che sono anche molto bravi e che io stimo — uno stile che è anche un po’ casuale.
Non voglio essere schiavo di un colore, di una marca, di una carta, ma poter improvvisare in base alla mia sensibilità e anche agli strumenti che ho intorno.

Mi preparo queste “brodaglie” — io le chiamo così, perché compro le ciotole della colazione, quelle bianche, magari quelle un po’ vecchie, rovinate, che ho a casa, oppure vado a ritrovare le cose vecchie nei mercatini — dove a volte mischio pittura ad acqua, acquerello, pigmenti naturali, per cui non hai sempre l’acquerello vero e puro nel senso della Windor & Newton o di chissà quale altra marca inglese, francese, tedesca o italiana.
Le preparo direttamente con un pennello cinese o pennelli da imbianchino, quelli molto semplici, tiralinea, che sono anche molto economici. Lo dico perché, secondo me, se hai un’idea non devi per forza appesantirti di spese enormi.

Parentesi brevissima: film di Kim Ki-Duk, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, un film che ho amato tantissimo. Lui ad un certo punto prendeva un ramo di saggina, con un sasso lo spezzava in modo che la parte finale del ramo si aprisse e diventasse come una setola, come un pettine, e in questo modo lo “pucciava” nella china e questo diventava un pennello, col quale disegnava su un sasso. Lui era un monaco zen, e ovviamente disegnava caratteri, ideogrammi coreani.

Nicola Magrin, tre acquerelli della serie “E il Mondo Rimase”, 2015
(fonte: nicolamagrin.com)

Sì, mi fai venire in mente anche Miroslav Tichý, il fotografo che scattò tra gli anni ’60 e gli anni ’80, ed aveva questa macchina costruita da lui tutta in cartone, con cui faceva delle foto dal potere evocativo estremo. Eppure aveva dei mezzi assolutamente poverissimi.
Effettivamente se vuoi creare qualcosa, puoi farlo con qualsiasi materiale tu abbia a disposizione.

Sono pienamente d’accordo. Sia chiaro, Io amo le cose belle. Il mio pennello da 200 euro ce l’ho, non vado solo con cose di recupero. Però quando dico pigmenti naturali, non perché l’abbia fatto vedere il regista de Il favoloso mondo di Amelie, ma basterebbe prendere del caffè, del tè… quello è un pigmento.
Detto questo, quindi, una volta che mi preparo queste brodaglie colorate, poi prendo i miei pennelli cinesi — il pennello cinese sembra molto spesso ma, se lo “pucci”, la punta può diventare molto sottile, e quindi in base a come utilizzi il polso, come nella calligrafia orientale, puoi fare dei segni leggerissimi oppure delle pennellate più larghe, più spesse. Io con questi miei pennelli dipingo un lupo, un bosco di betulle, un uomo in cammino, uno skyline, un cielo stellato. Ed è “buona la prima”, nel senso che non faccio schizzi, non lavoro mai con la matita. Lo hai visto bene nel video Chakra.

Questo lo avevo anche letto. Che tu non ti prepari prima un disegno ma dipingi direttamente. Una cosa che mi aveva molto colpito ed è una pratica che ha degli influssi orientali.

A me vedere il segno della matita sotto l’acquerello, che è così leggero e così delicato, infastidisce. E poi ormai sono dieci anni che lavoro così e sento che è la mia strada. E ho ancora da imparare. Tanto.
Ho dei bravi maestri, delle persone che ammiro e che stimo: Pinin Carpi, Hugo Pratt, il nostro Gianni Pacinotti, Scarabottolo, Shout, Klee, Miquel Barceló… Ci sono degli autori che io amo molto. Ti posso dire che gli autori che ho amato più da bambino me li porto dietro tutt’ora.

Negli anni di Brera, come pittore, ero più appassionato dalla Transavanguardia: Palladino, Clemente, Cucchi e via di seguito. Però quelli poi li ho abbandonati. Invece con autori come Pinin Carpi o come Hugo Pratt, quando vedo un loro lavoro continuo a emozionarmi come la prima volta, quindi vuol dire che quella è una sensibilità che è entrata nel tuo DNA, nel tuo cuore. E secondo me questo è molto importante. Non perché sono sentimentalista, ma perché ho proprio bisogno di emozionarmi per immaginarmi una scena e per dipingerla.

Vorrei riuscire sempre a mantenere la mia freschezza che, insieme al mio stile, è un po’ il mio marchio di fabbrica, perché quello che mi dicono gli editori, che sia Einaudi, che sia Longanesi, o anche i galleristi che trattano i miei lavori è: «Nicola se tu piaci è perché tu hai una tua freschezza, sei identificabile».
Poi che il mio lavoro venga appeso in casa tua, venga appeso in un museo, vada sulla copertina di un libro, a me sinceramente non cambia molto. Quando faccio la copertina di un libro non è che lavori in un modo diverso. Semplicemente, lavorando per un libro, ho una sinossi, ho una traccia, non vado a caso.

Da questo punto di vista, da cosa ti lasci guidare nel momento in cui disegni la copertina di un libro, rispetto ad un’opera in cui esprimi te stesso in maniera molto libera? Nel momento in cui invece sei chiamato a raccontare la storia di un’altra persona cosa ti guida? Leggi il libro oppure no?

A volte non c’è tempo, ma dipende molto dal progetto sul quale stai lavorando. Mi capitò il “caso Terzani”, con la Tea. Lì ho avuto proprio un rapporto stupendo. Perché il direttore della Tea — Stefano Res — è il numero uno. Ha un grandissimo rispetto del lavoro dell’artista, dell’illustratore, del mio lavoro, e quindi ha un grande rispetto per quello che faccio. Conosce i limiti del mio lavoro perché sa che non uso il computer, che non lo so — né voglio — usare. Io non scansione l’acquerello per poi poter intervenire in un secondo momento. Semplicemente lo fotografo e poi mando la foto. Eventualmente è il grafico della casa editrice che può accentuare leggermente i contrasti, e cose simili, però non cambia troppo i miei lavori.

(fonte: facebook.com/pg/nicolamagrinofficial/)

E con i libri di Terzani com’è andata?

«Nicola, rifaremo tutta l’opera di Terzani per i dieci anni della morte, è un lavoro a cui teniamo moltissimo», mi ha detto Res. Soprattutto Angela Terzani, moglie di Tiziano, non voleva più le fotografie, seppur bellissime e fatte da grandi artisti.
«Vogliamo affidare a te il lavoro perché con la tua sensibilità creeresti delle immagini nuove», ha aggiunto Res. E in effetti è stato così, perché erano tutti molto contenti, soprattutto Angela Terzani. Ho avuto quattro mesi di tempo per fare otto libri, e quindi ho avuto anche tutto il tempo per leggerli. Sono stati quattro mesi stupendi.

Altre volte immagino che invece non ci sia tutto questo tempo.

A volte ti dicono solo: «Nicola, c’è questo libro. La sinossi è questa, tre parole chiave: bosco, lupo, uomo. Non sappiamo altro. Fra due giorni ci servono tre o quattro immagini».
Capita che un libro di cui hanno acquistato i diritti non l’abbiano ancora tradotto ma hanno comunque bisogno della copertina.
A quel punto segui il tuo istinto, cerchi di “ingolosire” innanzitutto te. Io devo essere contento di quello che ho fatto. Quando fotografo l’immagine devo dire «Che bel quadro». Se poi andrà in porto, bene, altrimenti lo terrò per me. Poi devi ingolosire l’editore e l’autore. E quindi mando sempre tre immagini, se mi lascio prendere la mano anche quattro. Ma hai pochissimo tempo. È come una gara: se non riesci a farlo in due giorni, basta, ti mollano e vanno da un altro o da un’altra illustratrice. Non hanno molto tempo da perdere.
Secondo me, se vuoi lavorare nell’editoria, ci devi mettere poesia ma con delle tempistiche velocissime, il tutto in modo abbastanza originale, in cui ti riconosci.

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A proposito di editoria, che ne pensi del grande ritorno del “nature writing” e della recente ondata di pubblicazioni dei diari e degli sketchbook degli esploratori e dei naturalisti del passato? È solo una moda editoriale?

È vero, se ne parla di più. Sicuramente il Premio Strega per Le otto montagne ha puntato i riflettori sull’argomento. Ma è un tema che c’è sempre stato. Pensa a Mario Rigori Stern.
Ora c’è anche tanto materiale che riguarda il riscaldamento globale. Però a me dopo un po’ stancano quei libri, quei racconti, quei film nati solo per denunciare una situazione. Mi piacciono invece quei libri dove emerge di più la poesia, e chi è intelligente riesce eventualmente a trovare una denuncia sottile e nascosta.
Mi ricordo un librino piccolo, di Maxence Fermine. Si chiama Neve.

Lo conosco! Ho regalato la mia copia ad una mia cara amica. È splendido.

Ah, ti piace? Mi fa molto piacere che anche tu condivida questa cosa, perché per me un librino così è molto più forte di altri libri che magari escono nel giro di un anno nell’editoria mondiale su questo ritorno alla “wilderness”, alla natura.
Un altro libro: L’albero di Shel Silverstein, Salani editore.

Un classico.

L’ho regalato ai miei nipoti per il battesimo. Secondo me è un libro che non è educativo, di più. Disegnato con la penna bic, non è nemmeno un libro pittorico. Eppure è di una poesia…
Forse mi sto un po’ discostando dalla tua domanda. Per tirare le somme, sono contento se si parla di natura, e se vai in una libreria oggi il reparto “Wild” è molto più gonfio rispetto a vent’anni fa. Mi fa piacere. Punto. Stop.

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Ho letto che quando lavori su piccoli formati spesso ne dipingi uno dietro l’altro come fossero delle storie. Hai mai pensato di pubblicare un tuo lavoro costruendo una narrazione vera e propria? Hai mai pensato a un libro illustrato, visto che fra l’altro hai già curato le illustrazioni per Il Cane, Il Lupo e Dio di Folco Terzani?

Facendo il pittore, vedo che mi viene molto semplice raccontare la traccia di un racconto come fosse lo storyboard di un testo, di un libro più lungo. Un giorno vorrei fare un libro mio, non per presunzione, ma proprio perché sento che ho una voce dentro e so che deve uscire. Dico sempre: «ognuno il suo mestiere», e non voglio usurpare altri ambiti a chi sa fare meglio di me.
Ci sto arrivando piano piano. Il primo passo sono state le copertine, il secondo il libro con Folco Terzani, che è stata un’esperienza stupenda. Ci ho lavorato l’estate scorsa e ho fatto 120 acquerelli, poi la casa editrice Longanesi ne ha scelti 59.
Folco è un altro grandissimo amico, un po’ un fratello maggiore. Io facevo i quadri d’estate, col caldo di agosto, e poi gli mandavo una mail o ricevevo una telefonata per dire «va bene, non va bene». Io ero a Monza e lui era a Orsigna, sull’Appenino Tosco-Emiliano, dove vive.

Il passo successivo è una novità che ho da poco consegnato, però bisogna vedere se vedrà la luce: è una storia scritta da Ester Armanino per la quale io ho fatto gli acquerelli. Ora ce l’ha il nostro agente, Marco Vigevani, di The Italian Literary Agency.

Quali sono, invece, le copertine dei libri che ti piacerebbe un giorno poter disegnare, oltre a quelle alle quali tieni maggiormente?

Già prima ti dicevo che Rigoni Stern è il mio autore preferito. L’ho letto e l’ho riletto. Quando passo le estati in montagna la prima cosa che faccio è rileggere Arboreto salvatico, come fosse un benvenuto in quel periodo che faccio in montagna d’estate o avanti e indietro durante l’anno.
Poi Cormac McCarthy. E, per assurdo, anche Hemingway.

Ma Steinbeck, per esempio, non ti piacerebbe?

Sì, anche lui. Tantissimo! Brava.
In generale mi piace molto l’essere umano immerso in questa natura non sempre buona, non sempre salvifica, una natura che è introspettiva, che ti guarda dentro.

(fonte: facebook.com/pg/nicolamagrinofficial/)

Per quanto riguarda invece i libri che hai realizzato tu, quali sono i libri ai quali sei più affezionato?

Alcuni libri di Tiziano Terzani mi piacciono per come li ho realizzati: In Asia, Buona notte signor Lenin, che tra l’altro è anche uno dei suoi libri che preferisco.
Un altro libro che amo molto è Così fu Auschwitz di Primo Levi, un libro tristissimo, però in copertina c’è una foglia che scende, una foglia che cade, e Monica Aldi dell’Einaudi — che è il mio “guru” — quando vide questa copertina rimase proprio contenta.
E poi Le otto montagne di Paolo Cognetti. Sono molto contento di quel quadro, più pittorico, più descrittivo, rispetto alla foglia di Primo Levi.
Mi piace molto Il richiamo della foresta di Jack London. E Fratelli migranti, di Patrick Chamoiseau.

(fonte: facebook.com/pg/nicolamagrinofficial/)

Ho letto che durante un viaggio in Canada hai fatto uno degli incontri più belli e affascinanti per un amante degli animali e della natura incontaminata, ovvero sei riuscito ad accostarti ad un branco di lupi. Mi piacerebbe — e anche e soprattutto al mio Direttore piacerebbe molto che parlassi di questa tua esperienza unica. (Il mio Direttore vuole sapere tutto dei lupi!)

Ti racconto tutto e ti dico l’ultima cosa sul lavoro, perché è una cosa bella. Tu la conosci Cristina Taverna della Galleria Nuages di Milano?

Sì…

Sai che è stata la gallerista di Hugo Pratt, Mattotti, Muñoz, Moebius, Milton Glaser, Scarabottolo, Folon. Quando ritorno dal Nepal, a inizio novembre farò una mostra lì, perché mi ha fatto illustrare Il richiamo della foresta di Jack London.
La libreria Nuages faceva da vent’anni dei libri stupendi, stampati divinamente. Sono anche i primi libri di Pratt che ho comprato. Aveva illustrato le poesie di Arthur Rimbaud, le poesie di Rudyard Kipling. Poi Lele Luzzati aveva fatto “Pinocchio”, e Folon un racconto di Herbert G. Wells. Insomma aveva unito i più grandi scrittori della letteratura con i più grandi illustratori.

Sì. Geniale.

Ed erano libri stampati divinamente. Costavano anche tanto ai tempi.
Guardando questi libri le ho detto: «Cristina, visto che Jack London non c’è, nel tuo campionario di autori, perché non mi fai fare Il richiamo della foresta?». Le si sono illuminati gli occhi.
Ci ho lavorato quest’estate. A ottobre va in stampa.

Nicola Magrin, acquerello della serie “Day Lake”, 2013
(fonte: nicolamagrin.com)

Arriviamo al Canada.

Nel marzo del 2012 ho fatto un’esperienza di un mese in Canada ai confini con l’Alaska, verso Smithers nella British Columbia, ospite di due signori stupendi, marito e moglie, italiani che però da trent’anni vivono in Canada e sono amici di famiglia.
Vivono in una casa di legno e di tronchi a Day Lake, a due ore da Smithers, che è il primo paese vicino. Lì l’inverno dura otto mesi, con la neve. Se devi andare a fare la spesa sai che ci vogliono quattro ore, due ore ad andare e due ore a tornare. Tutti hanno il pick-up. Sembra un po’ il paesino di John Rambo degli anni ’70, il primo Rambo: strada dritta, chiesa mormonica, o ortodossa, o altro, grandi centri commerciali, tanti indiani purtroppo alcolizzati.

La casa di legno è immersa nella natura. Un bosco immenso e un grande lago ghiacciato, dove si andava a pescare facendo dei buchi con la trivella. C’era l’aquila a testa bianca: immensa, sembrava un pinguino. Le lanciavo la trota e lei se la mangiava. Una mattina è passata una lince, a dieci metri da noi, dieci volte un gatto.
Tutte le giornate erano molto semplici. Si faceva da mangiare, si leggeva, si stava fuori. Io aiutavo Gianni e Magì, che sono amici dei miei genitori e hanno più o meno la loro età: settantacinque e sessantasette. Si lavorava molto. Si andava a far legna, si lavorava nella neve, all’aria aperta, a faticare, sudare. A me piace molto.

Nicola Magrin, acquerello della serie “Day Lake”, 2013
(fonte: nicolamagrin.com)

E i lupi?

Una mattina, arrivando al lago con la motoslitta, abbiamo visto davanti a noi nove lupi. Davanti a noi vuol dire a quindici metri, quindi a un tiro di schioppo. Il lupo dell’Alaska, anche se lì è Canada, non è il lupo cecoslovacco che va di moda in città da noi, o quello dell’Appennino Tosco-Emiliano, che sembra un cagnetto. Il lupo americano è un bestione. Peserà sessanta chili.
Inizialmente ho avuto una paura boia. Mi sono messo dietro Gianni — che è una specie di Walter Bonatti, cioè è stato un grandissimo scalatore, esploratore, mi fido molto di lui. Mi sono messo dietro di lui, che invece era emozionatissimo, perché era la prima volta che li vedeva, lì, così da vicino.

A un certo punto Gianni è saltato sulla motoslitta e li ha inseguiti e io sono rimasto da solo nel bosco, finché ho preso anche io la motoslitta per stare dietro a lui. C’è stato un momento, che sarà durato quindici secondi, sia chiaro, però a me sono sembrati almeno dieci minuti, in cui io con la motoslitta guidavo fortissimo, a cinquanta all’ora, e avevo i lupi attorno a me che correvano. Ovviamente loro volevano scappare da noi, ma li avevo di fianco a me. E ho avuto il coraggio di tirare fuori il mio iPhone e di fare un video, con la paura di ribaltarmi, perché con una mano guidavo e con l’altra filmavo col cellulare. Poi mi sono fermato, anche perché non volevo far venire un infarto a quei poveri animali, che poi si sono sparpagliati nel bosco. Dopo un po’ si sentiva l’ululato del maschio alfa e della femmina alfa ai lati opposti del lago, che richiamavano il “pack”, cioè il branco. Mi viene ancora la pelle d’oca.

Io che non ho mai dipinto lupi o cani in vita mia, sono tornato in questa loro casa, dove vivevo, e con gli acquerelli che mi porto sempre dietro e un pennellino mi sono messo a fare un primo acquerello, che non venderò mai perché è un ricordo.

Nicola Magrin, tre acquerelli della serie “Wolves”, 2012
(fonte: nicolamagrin.com)

Da dove viene il tuo amore nei confronti della natura? Da fuori, dà l’idea di essere un approccio quasi mistico, totalizzante. Mi piacerebbe che me ne parlassi.

Da bambino mi perdevo nell’osservare le immagini di quei bellissimi libri illustrati tipici dei primi anni ottanta.
Conservo ancora un’edizione de Il Sentiero Segreto di Pinin Carpi. Mi sono immerso nei suoi villaggi, nei suoi boschi abitati dalla mia fantasia. La natura raccontata era senza limiti, e in questo l’acquerello di Carpi aiutava.

Crescendo, la natura immaginata veniva alimentata da una vissuta durante le estati in montagna. I miei genitori stavano mettendo le basi per questa passione che oggi è la mia fonte d’ispirazione. Mi piace camminare in città come in montagna. Raggiungere un posto, un obiettivo, con le proprie gambe, è gratificante e mi alleggerisce i pensieri.
Quasi fosse un rito di buon auspicio, la mia giornata, avendo un cane, inizia con una lunga camminata al parco di Monza per poi dirigermi nel mio studio dove dipingo.
Preferisco fare lo stesso percorso senza pensare alla strada ma perdendomi nell’osservare la natura circostante memorizzando il nome degli alberi, dei fiori, degli uccelli, cercando di riconoscerli con il cambiare delle stagioni.
È un tempo che prendo per me, e il camminare, piuttosto che la corsa o la bicicletta, segue il ritmo del mio osservare.

La Natura nei miei quadri appare spesso quasi fosse una madre silenziosa che mi accompagna nella mia crescita di uomo, di artista.
Ho avuto la fortuna di lavorare con delle splendide case editrici italiane: Einaudi, Tea, Longanesi, Ponte alle grazie, Editori Laterza e certamente alcuni dei loro autori ora mi accompagnano nei miei camminamenti reali o fantasiosi. Le montagne raccontate da Camanni, Righetto, Cognetti si mischiano, senza nessuna pretesa di uscirne vincitrici, con quelle che io vivo d’estate in alta Valmalenco.

(fonte: facebook.com/pg/nicolamagrinofficial/)

Vista la tua grande amicizia con Paolo Cognetti e l’amore che lega entrambi alla montagna, mi piacerebbe sapere qual è, per te, il posto del cuore. Quello in cui eventualmente ritirarsi per fare i conti con la vita?

È lì, in montagna, dove vado io. È in Valmalengo, che è sopra Sondrio. È una vallata della Valtellina, cioè fa parte della Valtellina. E i miei genitori si sono sposati lì quarantaquattro anni fa. Lì c’è la prima camminata che faccio quando vado in montagna, anche un po’ per riabituarsi al cammino, nel senso che dopo tanta città non hai più l’allenamento.

Vado a camminare nella valle di Chiareggio per raggiungere l’Alpe dell’Oro. Chiareggio è l’ultimo paesino della vallata, perché dopo ci sono le montagne e poi sei in Svizzera, a Sils Maria. E da lì, in un’ora, arrivi a un pianoro, a una collina che è chiamata Alpe dell’oro — ma non ha nulla a che fare con l’oro, non è che trovassero oro o cose simili. Di fronte hai il Monte Disgrazia, che è una montagna stupenda, il mio piccolo Himalaya. Hai montagne molto imponenti, che superano i 3.700 metri, 3.800, con ghiacciai ancora maestosi. E sembrano lì, davanti a te, sembra di toccarli. E sono stati i miei modelli, anche per i miei quadri himalayani.
Lì c’è la casa di una signora anziana, che ci vive nel periodo estivo e primaverile. Lei si chiama Margherita. Sono andato a mangiare da lei gli gnocchi al cucchiaio questa estate. Vive con le galline, è vedova, ed è un altro mondo, un’altra vita. E io quando vado lì sono molto felice.

Nicola Magrin, tre acquerelli realizzati per una mostra presso l’agenzia Glebb & Metzger, Torino, 2016
(fonte: nicolamagrin.com)
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