Bruno, il Made in Italy e l’avatar

La Punto dei carabinieri percorse la strada principale della cittadina murata nel cuore del Veneto con le sirene ed i lampeggiatori, sobbalzando e cigolando sul ciottolato, si fermò con una brusca frenata davanti al palazzetto della Camera di Commercio. Al passaggio dell’auto tutti si affacciarono alla porta, il salumiere pulendosi le mani sul grembiule, il barbiere con il rasoio pieno di schiuma da barba, il barista con la scopa, tutti sulla porta della loro bottega.

I due giovani carabinieri uscirono dall’auto con un balzo alla Starsky & Hutch e si posizionarono davanti al portone con le pistole in pugno. Il maresciallo Cosimo A., vuoi per i chili e gli anni in più dei suoi colleghi, scese con calma e si infilò il cappello ed una sigaretta spenta tra le labbra. Giunto all’interno si rese conto che oramai della forza pubblica non c’era più bisogno. Bruno non era più pericoloso, era seduto per terra, tutto sudato, la giacca senza bottoni e la camicia strappata fuori dai pantaloni.

Nella mischia anche la parte avversa o, meglio, i due impiegati dell’ufficio marchi e brevetti, avevano subito lievi danni, uno aveva un livido sulla fronte appena sotto la ciocca di capelli basculanti del riportino che a seguito del parapiglia sembravano una vela con l’equipaggio impazzito, il livido al centro della fronte era circondato da un alone nero con la data. In mancanza di armi più consone, Bruno per colpire aveva usato il timbro del protocollo, in legno e ottone. L’altro, l’impiegato, teneva il fazzoletto sull’orecchio e tamponava la piccola perdita di sangue causata da un morso.

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In disparte nel corridoio le impiegate raccoglievano gli esiti della zuffa. Un mouse che sembrava un grosso bacherozzo rovesciato con le lucette a led che lampeggiavano, una tastiera spezzata con una serie di lettere per terra che sembravano tessere per giocare a scarabeo. Nel resto della stanza, a parte i fogli sparsi sul pavimento, non apparivano altri danni, solo il quadro di Napolitano attaccato storto alla parete sembrava avesse partecipato alla zuffa.
Il maresciallo Cosimo A. si rese subito conto che la cosa non era poi tanto grave come appariva dalla telefonata, guardò il segno dei denti sull’orecchio roseo e grassoccio e gli vennero in mente le impronte che ricavava il dentista sulla plastilina. Poi passò ad esaminare l’altro contuso, trattenne a stento un piccolo ghigno e notò che nonostante fossero le nove e mezza la data che appariva a seguito della timbratura sulla fronte era ancora quella del giorno precedente.

Alla fine si chinò verso Bruno, lo invitò a sedersi sulla sedia e si appoggiò con le braccia aperte alla scrivania. Non fece a tempo a dire dunqu… che tutti e tre insieme si misero a urlare. Fece cenno al carabiniere giovane che lo seguiva di allontanare i curiosi e di chiudere la porta.
Bruno M. lo conosceva da tempo, era in cura presso il centro di igiene mentale, che aveva sede vicino alla caserma. Diverse volte si era fermato a chiacchierare con lui al bar, a volte gli sistemava le divise, non aveva voluto mai nessuna ricompensa, aveva solo richiesto, recentemente, un parere legale per una questione che lo ossessionava da tempo.

La storia di Bruno gli era nota, lavorava al taglio in una storica azienda di abbigliamento della cittadina, e da tre anni era stato licenziato. Le giacche, sopratutto quelle a quadri, che lui sapeva tagliare con cura, arrivavano oramai da paesi sempre più lontani e con i quadri sempre più storti. Per qualche anno alternava lunghi periodi di cassa integrazione a brevi periodi passati ad aiutare i magazzinieri che tagliavano le etichette cinesi e rumene e a mettere quelle italiane.
Quella operazione nel gergo dei dipendenti veniva definita “sdoganamento”. Poi, dopo la chiusura definitiva della fabbrica, era arrivato il licenziamento.

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Aveva 43 anni. Pochi per essere vecchio, troppi per essere giovane. Con la liquidazione aveva comprato un computer e si era iscritto ad un corso promosso dal sindacato. Da subito si era appassionato a queste nuove competenze, forse anche troppo. La sua in breve tempo era diventata una sorta di fissazione: su internet aveva letto tutto, ma proprio tutto quello che riguardava il made in Italy. Dopo aver approfondito tutte le informazioni che via via trovava era arrivato ad una conclusione: io ho lavorato per 27 anni a produrre capi per il made in Italy, quindi ho contribuito a dare valore e prestigio a questo marchio, quindi nel mio piccolo ne sono comproprietario.

Aveva letto una ricerca commissionata ad una importante società americana. La graduatoria sulla notorietà dei marchi più conosciuti al mondo poneva il made in italy al secondo posto, dopo la Coca Cola e prima della VISA. Appurato che il marchio non era registrato, era arrivato alla conclusione che l’avrebbe fatto lui. L’avrebbe registrato e poi avrebbe perseguito tutti quelli che lo usavano in modo fraudolento.
Aveva scaricato da internet gli appositi moduli, fatto i versamenti in posta e si era presentato alla Camera di Commercio di prima mattina per registrare il marchio made in Italy.

Finché lavorava in fabbrica il suo comportamento non aveva mai dato nessun pensiero alla anziana mamma con cui viveva, poi da quando aveva perso il lavoro si era chiuso in casa, sempre davanti al computer, ossessivamente. Cominciavano ad uscire lati del suo carattere un po’ più problematici.

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Quella mattina si era presentato con il suo elegante vestito blu e con la cartellina con i moduli e i versamenti per la richiesta di registrazione.
Quando l’impiegato in tono sprezzante gli chiese «visto che c’è perché non brevetta anche l’acqua calda?», di fatto aveva creato una situazione culminata con la timbratura sulla fronte, l’altro collega esperto di arti marziali nonostante anni di addestramento alla difesa personale si era guadagnato il morso nell’orecchio.

Il maresciallo cercò per primo di calmare Bruno, poi gli altri due. Alla fine spiegò che secondo lui chi presentava il marchio era stato provocato. Una volta compilati i moduli e fatto il versamento l’accettazione della pratica era un atto dovuto, poi c’era la commissione che eventualmente aveva la possibilità di respingere la richiesta. Loro erano degli impiegati (anche se si definivano funzionari) e non rientrava nei loro compiti rifiutare la registrazione.
Con questa argomentazione la cosa metteva in difficoltà anche loro e su questo fece leva il Maresciallo per evitare una denuncia a Bruno.

Questo fatto è accaduto due anni anni fa, la commissione non ha più risposto, e Bruno ha spostato i suoi interessi verso il mondo degli extraterrestri. L’ho visto un po’ di tempo fa al bar dell’ospedale, l’ho salutato, mi ha risposto che lui non è Bruno ma il suo avatar, mandato nella terra per sbrigare delle commissioni. Bruno (quello vero) da tempo era stato assorbito da un’altra galassia.
Ero di fretta ed ho visto che era molto determinato: a quel punto gli ho chiesto se aveva modo di vederlo, il vero Bruno, e nel caso se me lo salutava. A quel punto ha sorriso e mi ha detto che l’avrebbe certamente fatto.
Non contraddirlo si è rivelata la scelta migliore.

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