Quando ero bambino…

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Il 20 marzo del 1986 era un giovedì. Facevo la prima elementare e il mio quasi omonimo compagno di classe Simone Rossi invitò i maschi della classe a casa sua per il compleanno. Fu lì che vidi per la prima volta, dal vivo, il Saloon dei Playmobil. Era da quasi un anno che lo vedevo quel Saloon. E lo desideravo.

Tutte le settimane, sulle pagine di Topolino (assieme alle pubblicità del pomeriggio sulle reti berlusconiane, Topolino era il più grande pusher di invidia e desiderio infantile) guardavo quello scenario western di plastica, quei cavalli immobili e stilizzati, quel dottore biondo con la barba da hipster, i pistoleri col fazzoletto al collo e la strana donna col mantello rosso—le donne Playmobil erano in tutto e per tutto identiche agli uomini e si riconoscevano dal vestito, che s’impennava verso l’alto all’altezza della pancia (innescando, col senno di poi, tutta una serie di stravaganti interrogativi…).

Dieci centimetri buoni più alto di me, che nella stramba fila diagonale in cui ci disponeva la maestra tutte le settimane durante l’ora di ginnastica stavo a metà, appunto tra Simone Rossi e le gemelle Marzia&Martina, il mio quasi omonimo aveva la camera piena di Playmobil. La sala operatoria dei Playmobil, la trivella lunare dei Playmobil, i Playmobil vigili urbani e i Playmobil pompieri oltre a tutta una serie di anonimi figuranti—col vestito impennato o meno—che facevano sfigurare il mio pur magnificente galeone dei Playmobil (con tanto di bandiera dei pirati, cassa piena di mini-dobloni d’oro di plastica e un capitano della nave con la gamba di legno plastica).

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Scopro ora su La Scatola Dei Giocattoli, sito social-nostalgico lanciato qualche settimana fa da Mattel, che quello stesso Saloon fu tra i giochi più popolari del 1985. Roba che l’averlo o meno poteva diventare l’inizio di un trauma infantile tipico del capitalismo avanzato, di quelli che poi ti ricordi anche da grande e quando rivedi il gioco in questione vieni invaso da un ambiguo sentimento di rabbia, frustrazione, sollievo e nostalgia (in quinta elementare ne ebbi giusto uno per colpa di una macchina telecomandata che tanto chiesi e che mai—giustamente e per fortuna—ricevetti).

Per non farmi mancare niente ho continuato a sbirciare tra i giochi d’annata—il sito parte dal 1950—godendomi l’effetto madeleine e rimuginando a posteriori sulle memorie legate ai robot, alle macchinine, ai pupazzi che sognavo e a quelli che avevo: i due giochi popolari nell’86, ad esempio, ce li avevo entrambi: uno era Voltron, lo smontabile difensore dell’universo, l’altro uno dei Popples, quei cosi pelosi dai colori acidi che si richiudevano in loro stessi con una tasca marsupio.

Dopo più vent’anni quei giochi fanno sorridere, sia per l’ingenuità (nostra ed intrinseca ai giochi stessi) rispetto a quelli di oggi, sia per le storie personali a cui sono legati. Giusto ieri sera, di ritorno da uno dei compleanni domenicali dei compagni di materna di mia figlia, non so come ma a cena abbiamo iniziato a parlare dei Masters (e l’82 fu l’anno di lui, l’uomo: He-Man) e man mano che provavo a descriverle quei bizzarri mostri—quello con la chela da granchio, quello con la bocca e ventosa, il rettile che sputava acqua, il simil-Predator che sputava scintille, l’uomo verde che sapeva di pino—avevo ben definiti, in testa, i momenti in cui ci giocavo. Le luci di casa. I rumori. La voce dei miei. Per qualche istante vivevo di qua, a cena con la mia famiglia nel 2013, e di là, nella mia cameretta degli anni ’80. E devo ancora capire se questo sia terribile o meraviglioso.

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co-fondatore e direttore
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