Memorie dal sottoscala | La bella di matematica

Negli ultimi mesi ho preso e abbandonato una quantità inquantificabile di libri equamente distribuiti tra classici, nuove uscite, romanzi, saggi. Ho capito che non era un buon momento per Jane Austen, ma neanche per Steinbeck, ma neanche per Carver, ma neanche per Foucault, e andava bene. Il dramma è iniziato quando, a un certo punto, ho iniziato a pensare non fosse tempo neanche per le parole crociate e i segnali stradali.

Ora che vi ho costretti a farvi questa inutile insalata mista di affari miei posso arrivare al dunque, ovvero che c’era bisogno di un ricomincio soft, ma sensato [laddove l’utilizzo del sostantivo “ricomincio” sia chiara espressione dell’involuzione cerebrale degli ultimi tempi].
Ora che vi ho ricostretti a farvi un’altra inutile insalata mista di affari miei posso finalmente comunicare che il libro che ho letto con piacere l’altro giorno, e con altrettanto piacere consiglio, è La bella di matematica di Alessandro Cecconato. Edito dalla casa editrice trevigiana Santi Quaranta, “La bella di matematica” è un piccolo libro di un giovanissimo autore [Cecconato è un diciottenne che facendo due conti dovrebbe essere appena uscito, suppongo indenne, dalla maturità].

La storia è semplice, si tratta delle vicissitudini di una classe di ginnasio alle prese con un’insegnante di matematica ostica al limite del grottesco. Il confronto tra studenti, neanche a dirlo, trevigiani, con l’insegnante, ovviamente, meridionale, è quadro che potrebbe cadere nel trito da un attimo all’altro, ma non lo fa quasi mai.
La scrittura di Cecconato risulta già piuttosto matura, con un umorismo ben calibrato e soprattutto, come emerge per esempio dal capitolo undici, di cui propongo un estratto, la capacità di rendere degli efficaci ritratti di un nord-est profondo e misconosciuto.

XI
Il Paese di Polon

Euforico, galvanizzato per la promozione, prima di festeggiare in pubblico mi diedi alla sana gloria privata: sì insomma le classiche pacche sulle proprie spalle, un abbraccio con me stesso e un sincero mi voglio bene.
Uscii di casa senza uno scopo o una meta; avevo solo voglia di gelato e una volta arrivato al bar della chiesa lo ordinai con lo stesso tono che avrebbe usato Robespierre dopo la presa della bastiglia. “Oste!” dissi al buon Igino, “del gelato alla menta e del latte al rum!”. Probabilmente mi credette ubriaco, in ogni caso mi rispose : “Paolo, non posso darti del latte con rum, hai solo sedici anni!”.
“Allora solo latte, grazie”.
[…] Per un periodo da Polon se ne andarono anche i fidanzatini in cerca di nozze, poiché dal pievano di quel periodo venivano definiti scarsi frequentatori della Santa Messa per pretendere il matrimonio.
Qualcuno protestò con il vescovo, così dal paese fu mandato via anche lui: per la cronaca, due anni dopo venimmo a sapere che il caro don Claudio stava per mettere su famiglia con una cubana di Belluno.

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