La parabola artistica di una donna che raggiunse l’apice della fama in appena tre anni e poi venne dimenticata
Nel luglio del 1896 uscì il terzo numero di Bradley, His Book, una rivista che — per i canoni odierni — avrebbe potuto essere definita come “magazine indipendente”. Il fondatore era lo statunitense William H. Bradley, pittore e graphic designer tra i più importanti dell’epoca. Era lui a decidere la grafica, sempre diversa, ed era sempre lui a scegliere i contenuti (racconti, poesie, articoli relativi alle arti visive, illustrazioni, riproduzioni di pagine di libri e opere d’arte), a disegnare le pubblicità che apparivano tra le pagine, e persino a stampare tutte le copie, che vendeva a 10 cents l’una, o in abbonamento a 1 dollaro l’anno.
Il progetto durò poco: l’anno successivo Bradley cessò le pubblicazioni, ma fece in tempo a mettere nero su bianco, appunto su quel n.3 citato in apertura, un pezzo dedicato a una delle donne più misteriose nella storia dell’illustrazione, Ethel Reed, che apparve quasi dal nulla nel 1895, diventò in breve uno dei talenti più acclamati dell’industria creativa americana ed europea del periodo, per poi sparire dai radar dopo il 1898 ed essere quasi totalmente dimenticata per oltre un secolo, perlomeno fino all’uscita, nel 2013, del saggio The Beautiful Poster Lady: A Life of Ethel Reed, con cui il bibliografo e storico del libro William S. Peterson inaugurò la riscoperta postuma dell’artista.
Torniamo a Bradley. Cosa scrisse nel suo1 articolo, intitolato semplicemente Ethel Reed, artist?
«Vale la pena notare che finora il cosiddetto “movimento del manifesto” ha portato alla ribalta solo una donna designer. È difficile dire se ciò sia dovuto a un difetto del corso ordinario di formazione artistica, dal quale le giovani studentesse hanno troppo raramente il coraggio di staccarsi, o se sia dovuto alla mancanza di inventiva originale che le donne stesse dimostrano. Probabilmente sia la formazione convenzionale che l’incapacità intrinseca di aprirsi a nuovi campi di lavoro sono da biasimare per il fatto innegabile che che finora sono gli uomini a detenere gli onori di questo nuovo ramo della produzione artistica, con l’unica eccezione, forse, di Miss Ethel Reed di Boston».
Cosa, signor Bradley (o chi per lui)?! L’ha scritto davvero? Anzi, l’ha concepito, vergato, composto e stampato senza che un barlume di buonsenso si affacciasse all’improvviso per suggerire — immaginiamolo come l’Armadillo di Zerocalcare — «a Will, nun te pare de stà a di’ ‘na cazzata?».
Pur con tutte le attenuanti che si potrebbero concedere mettendo in prospettiva il periodo storico e la relativa cultura dominante2, è difficile passar sopra a una simile cecità di fronte all’evidenza: quante possibilità, diritti, indipendenza e libertà avevano le donne, anche le più emancipate, nel mondo di fine ‘800?
Su una cosa però Bradley aveva (quasi) ragione: se non l’unica, Reed era tra le pochissime illustratrici di poster di quegli anni, l’epoca d’oro delle affiches. E — come ragionevolmente scrisse più avanti nell’articolo — «aveva il merito dell’originalità».
Originaria di Newburyport, cittadina del Massachusetts, Ethel Reed nacque nel 1874, figlia unica di una famiglia umile: il padre faceva il fotografo, cercando di sbarcare il lunario scattando ritratti ai turisti che durante la bella stagione andavano a visitare la zona; sulla madre, invece, ci sono poche informazioni. I due, comunque, avevano un rapporto tutt’altro che sereno, e le loro condizioni economiche erano molto precarie.
Edgar, il padre, morì di tubercolosi nel 1892, ma già un paio di anni prima Ethel e la madre si erano trasferite a Boston.
Per un certo periodo lei frequentò la scuola d’arte, ma gran parte della sua formazione di grafica e disegnatrice fu da autodidatta.
Si conosce poco dei primi anni bostoniani dell’artista, ma è noto che la carriera di Reed iniziò quando un amico, vedendo alcuni suoi schizzi, le suggerì di proporre qualche opera al Sunday Herald, l’inserto domenicale femminile del quotidiano Boston Herald.
Lei disegnò un poster che raffigurava una donna vista di profilo, con capelli neri, abito nero e un lungo e affusolato collo, intenta a leggere un giornale dalle pagine bianche. Sullo sfondo, degli altissimi papaveri.
L’illustrazione venne subito accettata, e la “giostra” cominciò a girare.
Ciò che calamitava gli sguardi del pubblico nelle opere della giovane artista era la sensualità che emanava dai suoi lavori. «Sessualmente outré [eccessivi, ndr] per l’epoca, i suoi disegni sono quasi tutti autoritratti in fluenti abiti scollati, in un periodo in cui le donne erano troppo educate per mostrare una caviglia non vestita. Le sue immagini erano sul filo del rasoio: sufficientemente ambigue da alludere a qualcosa di più, ma ancora abbastanza raffinate per il pubblico consumo» ha scritto poche settimane fa la designer Jennifer McKnight in un articolo uscito sulla rivista online Design Observer.
Reed stessa — abilissima nel promuoversi attraverso interviste e posando per i fotografi più importanti — era considerata un oggetto del desiderio e, a quanto pare, sui giornali di allora si parlava più della sua bellezza che dei suoi lavori.
In occasione di una mostra di manifesti a Washington, nel 1896, sul Washington Post scrissero di lei che era «la più importante cartellonista d’America» ma anche «una delle più belle donne che Washington abbia mai visto».
Come fa notare ancora McKnight, «Reed ha usato la propria immagine pubblica per guidare la sua carriera in un modo che sembra terribilmente contemporaneo. Incoraggiava i suoi fan a oggettificarla, e quindi è un primo esempio di artista e arte che si fondono in un’esperienza senza soluzione di continuità. Guardando la Reed con occhi contemporanei, il modo in cui la sua vita e il suo lavoro sono strettamente legati e confezionati per il pubblico ricorda quello in cui oggi gli artisti si fondono abitualmente con la loro arte in un marchio unificato per i social media».
Nei tre intensi anni della sua parabola artistica, tra il 1895 e il 1898, Reed lavorò per molte riviste e case editrici, disegnando copertine e pubblicità e illustrando libri.
La sua fama arrivò fino all’Europa, e da Londra alcune riviste le commissionarono delle opere.
La sua vita privata era altrettanto movimentata. Reed era indipendente, intelligente, assolutamente riluttante nel vestire i panni della classica donna borghese. Ebbe molte relazioni con alcune delle figure chiave della cultura e dell’arte del periodo, e a un certo punto, all’apice della fama, si fidanzò con Philip Leslie Hale, anche lui artista, oltre che rampollo di una delle più importanti famiglie di Boston. I genitori di lui, però, disapprovavano la relazione, e di conseguenza il fidanzamento fu rotto.
Questa fu forse una delle molle che la spinsero a lasciare Boston.
Nel 1897 fece le valigie e, insieme alla madre, andò a cercar fortuna in Europa. Girò molto — Regno Unito, Francia (lei e Hale sarebbero dovuti andare a Parigi per il loro viaggio di nozze), Irlanda — senza però riuscire più a trovare una stabilità economica.
Si stabilì infine a Londra, dove rimase in contatto via lettera con alcuni dei suoi vecchi amori. A uno di loro, che si offrì spedirle denaro, scrisse: «Non devo nulla ad alcun uomo, né fedeltà né spiegazioni. Io sono di mia proprietà». Risposta, questa, che sintetizza bene le spirito di Reed, tanto che una recente mostra su di lei, organizzata dalla Poster House di New York, si intitolava proprio Ethel Reed: I Am My Own Property.
In breve, Reed scomparse del tutto dalla vita pubblica. Si sa che ebbe due figli, da due diversi uomini, e che sposò un ufficiale inglese, Arthur Warwick, ma il matrimonio durò poco, così come la sua tranquillità economica.
Sembra che, per via delle molte delusioni lavorative che accumulò a partire dal 1898, si diede all’alcool e all’oppio. Dalle ricerche fatte da Peterson per il suo saggio The Beautiful Poster Lady: A Life of Ethel Reed, risulta che morì a Londra nel 1912, a soli 37 o 38 anni (non si conosce la data esatta della scomparsa), forse a causa di alcool e sonniferi.
«Il fatto che una donna considerata abbastanza importante da avere il suo nome sulla copertina dei libri che illustrava, una donna le cui opere sono state esposte al Nelson Atkins, al Met e all’Istituto d’Arte di San Francisco, possa essere completamente sommersa dall’oblio mi fa gelare il sangue» scrive McKnight sul Design Observer. E aggiunge: «Mi sono sentita consapevole di stare guardando la vita di Reed, una donna condannata da una delle più grandi forme di censura possibili — essere dimenticata — in un’epoca in cui i diritti delle donne sembrava di nuovo ridursi. La sua ascesa alla fama traccia un percorso stranamente familiare, in cui la vita personale di un’artista viene servita al pubblico, ma poi predice anche la sua fine. Oggi siamo altrettanto interessati alle vite degli artisti che ammiriamo. Sebbene sembriamo essere in una posizione diversa per quanto riguarda i diritti che rivendichiamo sui nostri corpi, dubito che qualcuno possa mettere in dubbio che il nostro lavoro sia tutt’altro che finito. Vedere una donna alle prese con questi stessi problemi un secolo prima mi fa riflettere».