Si parla di violenza di genere. Si snocciolano numeri. Un femminicidio ogni tre giorni — ogni due, durante il lockdown, quando anche le chiamate al numero verde contro la violenza e lo stalking, il 1522, sono schizzate alle stelle.
Si fanno le pulci agli articoli di giornale. Ai titoli assolutori — «l’ha uccisa per troppo amore», «l’amava fino alla follia», «era stato rifiutato» —, ai trafiletti che, sotto sotto, tra le righe, in barba al Manifesto di Venezia, insinuano che lei se l’è cercata.
Si lanciano allarmi sul revenge porn.
Si diffondono foto di cortei, notizie di flash mob, hashtag — #metoo #nonunadimeno, il più recente #unadonna1. Si retwittano e condividono prese di posizione forti e decise — «questa è una molestia, che tu la veda o no», «questo è patriarcato, che tu lo percepisca come tale o meno».
E ogni volta — ogni singola volta — vedo alzarsi sopracciglia. Sento sbuffare. Scorgo occhi che roteano. Mi arriva il fiato caldo dei sospiri di noia o di sufficienza. Spunta la manina, perlopiù virtuale, che si alza a ribadire, precisare, puntualizzare, smontare o a mandare tutto in vacca con un sempreverde «e fattela ‘na risata».
Sono le manine, gli sguardi, i sospiri dei miei simili. Tante volte sono stati i miei, quegli sguardi? Se li riconosco è perché, probabilmente, sì, sono stati anche i miei. Noi maschi, quando si attiva l’efficientissimo sistema di autodifesa di genere, diventiamo degli automi ottusi, ed è proprio per questo che andiamo pungolati senza sosta, sbriciolati, sabotati, pubblicamente sbeffeggiati. È l’unico modo per sperare di svegliarci. Ci va ripetuto fino alla nausea, fino al vomito, che, no, non c’è assolutamente possibilità di dibattito quando c’è una violenza su una donna in quanto donna. Quando ci sono sopraffazione, molestia, mobbing sul lavoro, ricatto. Non ci sono scusanti, alibi, ma. Le puntigliose manine vanno abbassate: sono pure quelle un’altra forma di violenza.
Su un tema del genere (e di genere), l’inconsapevolezza non è un’attenuante. Va, anzi, estirpata con ogni mezzo. E l’arte, che sa infilarsi tra le pieghe del pensiero cosciente per smuovere anche le più resistenti nefrolitiasi mentali, è uno degli strumenti più efficaci.
Per questo, ben vengano le discussioni, le conferenze, i saggi, le ricerche, le manifestazioni e le lotte, ma anche le mostre. Ben vengano progetti come Fil Rouge, un’esposizione ideata e organizzata dall’Associazione di promozione sociale Dismisura e da Emilia Bonomi in collaborazione con Silvia Vernaccini, Mirko Corradini e Rita Demattio.
Ospitata dallo spazio FoyEr, nel Teatro di Villazzano di Trento, la mostra raccoglie i lavori di 30 tra illustratrici e illustratori — tra giovani talenti e grandi nomi — che hanno partecipato a una call lanciata lo scorso marzo: Davide Baroni, Paolo Beghini, Sylvie Bello, Elisabetta Benfatto, Isabella Bersellini, Davide Bonazzi, Federica Bordoni, Mirko Camia, Johnny Cobalto, Fabio Consoli, Alessandra De Cristofaro, Andrea De Santis, Chiara Fedele, Chiara Ghigliazza, Joey Guidone (anche autore del manifesto della mostra), Elisa Macellari, Carla Manea, Marina Marcolin, Mauro Mazzara, Michela Nanut, Giulia Neri, Giulia Orecchia, Giulia Pastorino, Giordano Poloni, Francesco Poroli, Irene Rinaldi, Guido Scarabottolo, Elisa Seitzinger, Luisa Tosetto e Ilaria Urbinati.
Ma le opere sono solo una parte dell’allestimento, che offre agli sguardi degli spettatori un percorso accidentato fatto di immagini frutto di sensibilità differenti e di citazioni di testi letterari.
«Abbiamo deciso di realizzare una mostra che metta in relazione immagini e testi in un dialogo discontinuo e apparentemente illogico,» ha spiegato Emilia Bonomi, «all’interno del quale il visitatore dovrà ricostruire la propria narrazione, scoprendo così che la violenza di genere è un fatto che ci è molto più vicino di quanto siamo portati a pensare. Immagine e parola suggeriscono dunque spunti narrativi diversi, che stimolano la riflessione personale partendo direttamente dall’esperienza di chi osserva. Perché è solo chi osserva che può ritrovare il filo rosso e riempire i vuoti che sono stati lasciati tra immagine e parola».
All’interno dell’esposizione — che chiuderà il prossimo 30 ottobre — ci saranno anche degli “eventi nell’evento”: il 23 ottobre, alle 18,00, un reading di Maura Pettorusso, che leggerà il suo racconto La scimmia; il 28 ottobre un incontro dal titolo Conversando di violenza di genere, con la professoressa Barbara Poggio; e il 30 il finissage con un incontro sull’illustrazione in compagnia degli artisti.
Il mio invito, a chi può, è di andare, guardare, raccogliere idealmente il filo rosso e connetterlo coi propri pensieri. C’è sempre qualcosa da scoprire. Non sarà necessariamente semplice, lineare, rassicurante. Ma le cose importanti raramente lo sono.