A un certo punto ho cominciato a chiedermelo: cosa sta succedendo alla geografia? Com’è che in un mondo fotografato in ogni suo angolino, geolocalizzato in tempo reale, con strade e monumenti e luoghi “aumentati” dentro lo schermo di uno smartphone — com’è che da ogni dove spuntano progetti in cui mappe, carte, piantine, atlanti vengono distorti e reinterpretati?
Libri sulle cartografie contemporanee alternative, riviste di geografia romantica, esperimenti di cartografia radicale (e talvolta surreale), illustratori che ridisegnano la città o costruiscono mondi, app per disegnare passeggiate da spedire a qualcun altro.
In Limonov, il romanzo di Carrère, a un certo punto c’è il protagonista — il controverso scrittore russo Eduard Limonov — che arriva a New York, compra una piantina della città e ne rimane sbalordito per la precisione.
«Se indica che nella seconda strada a destra c’è Saint Mark’s Place, be’, lì c’è davvero Saint Mark’s Place, cosa inimmaginabile in Unione Sovietica dove le piantine, quando se ne trovano, sono immancabilmente sbagliate, o perché risalgono all’ultima guerra, o perché anticipano grandi opere pubbliche e mostrano la città come si spera sia tra quindici anni, o semplicemente perché mirano a disorientare il turista sempre più o meno sospetto di essere una spia», scrive Carrère.

Francesca Zoboli, “Verso Est”, 2015
(foto: Sabine Meyer)
Ecco, non è che forse nel sapere potenzialmente in ogni momento, con precisione chirurgica, dove siamo, cosa c’è attorno, dietro l’angolo, dove mangiare, dove incontrare l’amico — non è che sentiamo il bisogno di mappe sbagliate, sovietiche, ottimiste, pazze? Non è che sentiamo il bisogno di perderci, per poterci così riappropriare dei luoghi?
Utilissima, per carità, la tecnologia. Evviva i satelliti, evviva i secchioni che da qualche parte nella Bay Area sviluppano app per ricordarci l’esatto posto che abbiamo nel mondo. Ma quando poi hai bisogno di perderti davvero allora ti affidi agli artisti, che reinterpretando carte, cartine e cartoline si riprendono lo spazio ma contemporaneamente anche il tempo — rimescolandolo, rallentandolo, frammentandolo e ricostruendolo come un mosaico, grattandone via strati o disegnandocene sopra di nuovi.
Ed è proprio questo l’effetto — catartico — che ti fa una mostra come Cartografie dell’immaginario, il paesaggio tra mappature e smarrimenti, tra le tante iniziative (assieme a workshop, letture e incontri) organizzate a Viterbo da Librimmaginari, festival dedicato al libro illustrato di qualità, giunto alla quinta edizione e tenutosi tra marzo e maggio di quest’anno.

Patrizio Anastasi, Irene Rinaldi e Alessandra De Cristofaro, “AHHH VUUM”, 2015
(foto: Sabine Meyer)
La mostra, per chi volesse vederla dal vivo, è aperta fino al 21 giugno.
E dentro c’è pure una “mostra nella mostra”, Archivio dei paesaggi immaginari, dove tutta una serie di artisti ha lavorato sulle classiche cartoline (che ormai nessuno spedisce più), decostruendo il classico stereotipo del “paesaggio da souvenir”.
E dopo essere arrivati a Viterbo con mappe e navigatori, spegneteli o buttateli e affidatevi alla cartografia immaginaria.

Alex Raso, “Quando il bosco ti riserva un silenzio”, 2015
(foto: Sabine Meyer)

Massimo De Giovanni, “Forestetica – Paesaggio ricomposto”, 2015
(foto: Sabine Meyer)

Lucilla Candeloro, “paesaggio”, 2015
(foto: Sabine Meyer)

da sinistra Anna Nina Masini, Magda Guidi, Isabella Mara e Fernanda Pessolano
(foto: Sabine Meyer)

Kranti
(foto: Sabine Meyer)

Paolo Bazzani
(foto: Sabine Meyer)

Riccardo Muzzi
(foto: Sabine Meyer)

Kranti e Nicoz Balboa
(foto: Sabine Meyer)

Marcella Brancaforte e Anna Nina Masini
(foto: Sabine Meyer)