Nel suo Il filo d’oro, un saggio sulla storia della scrittura che proprio in questi giorni sto leggendo in ebook (tanto per dire come cambiano i supporti della scrittura) e che consiglio vivamente a calligrafi, tipografi, designer e a chiunque voglia farsi un ripasso di storia, l’autore, Ewan Clayton, uno che per cinque anni si è ritirato in un convento benedettino e poi è andato a lavorare nella Silicon Valley, scrive che «il sapere riguardante la parola scritta si trova nei luoghi più svariati, custodito dagli esponenti delle più diverse culture: gli epigrafisti, i paleografi, i calligrafi, i tipografi, gli avvocati, gli artisti, i disegnatori, gli incisori di caratteri, i pittori d’insegne, gli scienziati forensi, i biografi e molti altri ancora».
Ma a volte, per l’occhio che sa dove e come guardare (e con una buona dosa di pareidolia), le lettere si possono trovare addirittura in natura, in mezzo agli intrecci dei rami, nei vaporosi disegni delle nuvole, tra le rughe di un volto segnato dal tempo.
Oppure, al contrario, è l’homo faber che a partire dal ricciolo di una f, dal pancione di una B o dalla robusta stabilità di un’H può costruire sedie, tavoli, lampade, librerie.
O, ancora, andare a caccia di font — macchina fotografica alla mano — nelle strade, sulle vetrine dei negozi, su precari campetti da gioco disegnati dai bambini col gessetto.
Alle lettere trovate e a quelle costruite è dedicato un bel libro pubblicato recentemente da Thames & Hundson, intitolato The Typographic Universe, curato da Steven Heller e Gail Anderson, entrambi designer e docenti.
Il volume, 352 pagine e oltre 500 immagini, si articola 10 capitoli, ciascuno dedicato ai diversi scenari in cui poter andare per funghi lettere: la natura, il corpo umano, le strade…
Occhio però: se poi ti prende di iniziare a cercarne anche tu, veder messaggi che sembrano stiano cercando di comunicare con te non è un buon segno (così almeno mi ha detto l’alieno che ogni mattina mi dice cosa fare scrivendolo con le nuvole).