Pacchery Family, due accessori per la cucina onorano la tradizione campana

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Il segreto di una buona pasta sarà pure la pasta (per citare un’assillante pubblicità) ma se poi la sovraccarichi di sugo, ti lanci in abbinamenti improbabili, la cuoci nella pentola sbagliata, la lasci dentro quei 10 secondi di troppo, puoi avere la miglior pasta del mondo (che non esiste, ciascuno ha la sua preferita) e — con buona pace dell’attore della pubblicità De Cecco che “pasta” la pronuncia “basta” — il risultato sarà pessimo.

Il segreto di una buona pasta è preparare migliaia di piatti di pasta. E soprattutto aver guardato, prima, “un maestro” all’opera.
Mia madre ad esempio, che partiva da un’ignoranza completa riguardo a padelle e fornelli (rimase negli annali di famiglia la sera in cui mi preparò una purea di patate talmente liquida che me la servì in un bicchiere), imparò da un grande.

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Lui si chiamava Gianni Coppola, era di Angri, in provincia di Salerno, e faceva lo stesso mestiere di mio padre: girava per l’Italia a vendere macchine agricole.
Era un uomo buffo, Gianni. Un piccoletto pieno di spirito, un gran lavoratore che macinava decine di migliaia di chilometri all’anno, l’amico più fedele e leale che si possa sperare di avere.

Quando Gianni passava a casa nostra mangiavamo sempre e soltanto spaghetti al pomodoro e lui, negli anni, sera dopo sera, insegnò a mia madre ogni segreto. Negli ultimi tempi, quando lei ormai era diventata piuttosto brava, a Gianni rimaneva però l’onore di dettare i tempi. Aveva un rito: tirava fuori dalla giacca la sua forchetta d’argento personale, la puliva e tirava su uno spaghetto dalla pentola bollente. Lo osservava attento, ne saggiava la consistenza poi lo prendeva tra le dita e se lo infilava in bocca, gustandoselo per un istante che sembrava infinito, con tutti i nostri occhi addosso. Solo alla fine decretava, con fare ufficiale, quanto mancava per la fine della cottura. E ogni volta gli spaghetti erano perfetti.

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Lo spirito di Gianni, la sua ritualità, i gesti, erano quelli di chi amava le cose non solo fatte bene — fare bene qualcosa, dopotutto, è alla portata di chiunque — ma alla perfezione. La stessa che il giovane designer Francesco Pace ha inseguito (con successo, credo) prima nella progettazione e poi nella realizzazione di Pacchery Family, due contenitori pensati per versare riso e spaghetti ispirati proprio alla cucina campana.

La pasta più buona è la pasta più semplice: allo stesso modo il design migliore è quello in cui la forma sposa la funzione o, come dice Francesco presentando il progetto, «l’oggetto stesso diventa celebrazione del suo contenuto».
Una celebrazione che acquista ancora più valore nell’atto unico e irripetibile della produzione in serie limitata, realizzata utilizzando un materiale ricco di storia (e storie) come la porcellana, la cui lavorazione [nelle immagini alcuni fasi del lavoro] è stata affidata alle mani sapienti di un Mastro Porcellaniere Napoletano come Pasquale de Palma di Capodimonte porcellane d’arte.

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Francesco Pace — di cui ho già parlato in passato per un paio di bei progetti in cui era coinvolto: il Progetto Pronto Intervento e le lampade ispirate alle foto dei coniugi Becher — è napoletano ma la Pacchery Family, composta dai due pezzi R (come riso) e S (come spaghetti), è nata in quel di Berlino (sarà stata la nostalgia dell’Italia a far scattare la scintilla?).

Proprio a Berlino è stata esposta la prima serie, realizzata grazie alla collaborazione tra l’Università delle Arti e KPM, storica azienda tedesca di porcellane.

E ora Pacchery Family è anche in vendita online (da Swart, Buru-Buru e Jsign) mentre a partire da domani sarà in esposizione a Firenze, a Palazzo Strozzi, nell’ambito di Source, mostra del design autoprodotto che inaugura appunto domani.

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