Il cielo sopra Milano | fuori/dentro/salone in forma di poesia

Niente velleità poetiche ma il ritmo mentale per raccontare la settimana milanese era questo e come tale andava riportato.
Che le muse abbiano pietà della mia anima.

E’ stato il Salone degli amici
rari quanto un assolato sabato mattina e
come quello da viver con lentezza
che del doman non v’è certezza
tranne la fierezza
del reciproco rispetto e l’amarezza
nel salutar con un abbraccio o solo un gesto
della mano
in testa ancora moti d’allegrezza
adolescente salvati nel disco fisso del cervello
chi avrebbe ancora tanto da raccontarti
anche solo per iniziare a conoscerlo
davvero.

E’ stato il Salone della crisi
che si vedeva ma
solo fino a un certo punto
tutt’altra cosa rispetto alla svuotata e triste
Milano della moda, almeno
a sentir quel che aveva da dire
il tassista che dopo una vita di Fiat
è passato alla Mercedes
seppur comprata usata
e a rate.

E’ stato il Salone di Lambrate
che sono riuscito a vedere ma
solo per procura
ah, ma Lambrate… ci sei stato?
devi andare.

Quando incontravi qualcuno e
sicuro come la morte ti chiedeva se per caso
hai visto qualcosa
di interessante? dopo un rapido e confuso
riassunto in forma di film
degli ultimi
giorni
della
tua
vita
la risposta era sempre
Lambrate.

È stato il Salone di twitter, poi.
Tra un #dentrosalone mentale
un dove sei?
e l’onnipresente imbottigliato sul ponte
di Porta Genova,
la sera
che a dar retta ai cinguetti sembrava pure fosse crollato
e se proprio avevi sete
bastava un #fernanditoplease
per fartelo portare direttamente tra le mani
ovunque fossi
(un ovunque circoscritto al buco nero di via Tortona).

Occhio, però, a startene appiccicato all’iPhone
che poi lo lasci in taxi
e quando riesci a ritrovarlo e
scopri che la tua vita social è andata avanti
anche senza di te
ti senti strano e
fuori                     sincrono.

E’ stato pure un Salone desaturato e pallidino
quello che usciva dall’occhio quadrato
di Instagram, tra le facili ironie dei detrattori
sono stato hipster prima di te e
prima di te spargerò merda
su di loro.

È stato il Salone della pioggia,
ad attaccar chiacchiere
appiccicati al muro sotto a un cornicione
poi tra scatti da centometrista e curve
à la Automan
correre a ripararsi nel padiglione francese
che magari ci scappa pure un bicchiere
di assenzio,
se non s’è fatto troppo tardi,
come aperitivo per una cena casalinga,
le montagne russe degli ombrelli
(un solo sguardo per capire:
alzo io o alzi tu
una ola di colori bagnati
lungo la via)
e poi una selva di dialetti, tra vini bergamaschi, insalate
siciliane, anice e caffé
nei bicchierini della grappa;
fuori
panorama milanese
che pure sotto ai nuvoloni, mai
m’era sembrato tanto affascinante.

Dev’essere lo stesso che vedono
i newyorkesi
tutti i giorni:
la nuvoletta piena d’elettricità
tutta speciale,
quando alzi la testa e
capisci di essere al centro del mondo,
nuvoletta che
per una settimana all’anno
fa tappa proprio in mezzo al cielo
sopra Milano.

E’ stato il Salone delle “fashion bloggers”
vagamente confuse (quelle che se ne sono accorte)
dall’intimidazione
che da Affari&Finanza di Repubblica
(poi tolto d’improvviso, quasi a sottolinearne
i tra le righe)
hanno sparato dall’alto come un proiettile
delle BR
– colpirne una ed educarne cento –
bloggers che a sentir voce di popolo
hanno i giorni contati ma poi
ne incroci qualcuna per un tuo errore di valutazione e
scopri che sì, il vuoto che traspare
dai siti pieni outfit
dubbio gusto e
vanagloria
in effetti proprio vuoto è
con le dovute eccezioni, però
ché comunque dietro a un manichino che pr e manager
leccati godono ad addobbare c’è pure
(quasi sempre)
una persona.

E non è che il livello del conversare fosse poi più basso
di quello di un aperitivo
high profile
dove l’unica arma per non sentirti un imbucato di quarta classe
sul ponte della prima
era entrare ancor più nel personaggio, quel simonedifrizzifrizzi
che sul campo
nella città in cui ha più lettori e che
si è fatta un’idea più precisa della tua su chi sei e come sei
(la mia l’ho scritta
sulla pagina di un libretto che girava
durante il rilassato e trasversale pranzo
#acasaproject: “io sono… sempre inadeguato”)
idea che di volta in volta cambiava
in base agli occhi nei quali ti specchiavi e
che passava da un interessante finto tonto ad
uno stronzo con la puzza sotto il naso a
un freddo osservatore,
un ciarliero festaiolo,
un quasi mitico papà,
un parvenue del giornalismo,
uno su cui strusciarsi, al limite
per ottenere un po’ d’attenzione e
convincerlo a rispondere
ad una mail.

Poi quando spegni lo schermo del computer e
accendi l’ultima sigaretta della giornata
in casa di un ospite più unico che raro
guardando Venere da un terrazzino, e
in pace
ti scrolli di dosso dal primo all’ultimo
te stesso
che ti hanno appiccicato
durante la giornata e te ne vai
a dormire, russando
con il faccione di un panda stampato sul pigiama
i calzini lanciati dentro alla valigia
aperta, le ciabattine fucsia
dell’Ikea, allineate sul pavimento
accanto al telefono pieno di mail
tweets
messaggi che aspettano,
al risveglio, il tuo alter-ego per una risposta che forse non arriverà.

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