TACI, anzi PARLIAMO: la nuova campagna di CHEAP sui muri di Bologna

Sono maschio, sono bianco, sono cisgenere ed eterosessuale; poco più che quarantenne, vivo in quella che sulla carta è una democrazia occidentale. In un ideale grafico disegnato sui cosiddetti “assi dell’oppressione”, la società mi posiziona quindi nell’area del privilegio.
Ci sono persone molto più privilegiate di me, certo, ma è un numero risibile rispetto a quello di chi invece deve subire sulla propria pelle disparità di trattamento, ingiustizie e violenze per via del genere, dell’orientamento sessuale, dell’etnia, della disabilità, dell’età, del luogo da cui provengono, della lingua che parlano, della classe sociale, della possibilità o meno di studiare.
Quelli come me, fino a qualche anno fa, non si domandavano neppure in quale zona del suddetto grafico avrebbero potuto inserirsi. Né si interrogavano per un solo istante sull’effettiva esistenza e portata dei propri privilegi. Poi i solidi muri delle certezze, costruiti dalla cultura in cui siamo stati immersi fin da quando eravamo in fasce, hanno iniziato a scricchiolare. Dapprima quasi invisibili, le crepe pian piano hanno iniziato ad allargarsi, e quelli come me sono entrati in crisi, hanno iniziato a sentirsi accerchiati, instabili, a rischio di essere privati di gran parte di ciò che fino a quel momento avevano dato per scontato, indubitabile, dovuto, addirittura meritato. Qualche folle ha provato e sta ancora provando a mettere le toppe — c’è chi lo fa scrivendo libri, chi articoli di giornale, chi più o meno patetici sfoghi via social, chi costruendoci sopra programmi politici — ma il muro sta venendo giù e prima o poi chiunque di noi dovrà farci i conti. E auguri a chi ha deciso — per volontà o per ignoranza — di chiudersi gli occhi e tapparsi le orecchie, canticchiando lallallà per distrarsi dall’inevitabile: la caduta dal piedistallo sarà ancora più traumatica.

(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)

Quelle crepe; quel piccone che, giorno dopo giorno, con grande pazienza, stacca un pezzo di muro; e quella la folla che, fuori da quel muro, spinge e spinge, anche a mani nude, hanno un nome — femminismo intersezionale — e già soltanto il nome spaventa quelli come me. Femminismo, fin lì ci arriviamo. Ma intersezionale? Ed è a questo punto che arriva l’insegnante di geometria delle medie a farci ripassare la lezione: «te le ricordi le rette? Che succede quando due rette “vanno a sbattere” e si incontrano in un punto? Si intersecano, esatto. E allora immagina che ciascuna di queste rette siano una componente della tua identità. E che su quelle rette ci siano posizioni di privilegio e di oppressione. Se ti trovi in una posizione discriminata per via del genere, allora la tua lotta sarà una lotta di genere. E se ti trovi in una posizione discriminata per questioni razziali, allora la lotta sarà contro il razzismo. E il proletario porterà avanti una lotta di classe. Fin qui ci sei? Bene. Ma che succede se sei trans, su una sedia a rotelle, nera o nero, non hai avuto la possibilità di studiare e vieni sfruttata o sfruttato ogni giorno sul mercato del lavoro? Qual è, in questo caso, la lotta che porti avanti? Riusciresti a scegliere una sola? E in quel caso, quale sarebbe la più importante? Oppure provi a lottare per tutto quanto, contro tutte le discriminazioni e le violenze e le disparità di trattamento che ti vengono riservate per via dei vari aspetti che compongono la tua identità? Ecco, quella lotta, plurale, composita, fatta di molte anime, è ciò di cui parliamo quando parliamo di femminismo intersezionale».

(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)

Quindi eccomi. Sono maschio, sono bianco, sono cisgenere ed eterosessuale; poco più che quarantenne, vivo in quella che sulla carta è una democrazia occidentale, sono pieno di privilegi e trovo giusto — anzi, inevitabile — lottare per far sì che quegli stessi privilegi, insieme a quelli che non ho, vengano distrutti. Dunque, per prima cosa, mi metto in discussione, e, subito dopo, mi metto in ascolto di quelle voci che hanno qualcosa di insegnarmi su questo fronte. E sono molte: «una polifonia» la chiamano le attiviste di CHEAP, che pochi giorni fa hanno lanciato sui muri di Bologna il loro nuovo progetto di arte pubblica.

Intitolata TACI, anzi PARLIAMO: il femminismo è la soluzione (titolo che vira al plurale quello del diario dell’attivista femminista Carla Lonzi, uscito a fine anni ’70) la campagna si articola in una serie di 50 manifesti inediti affissi lungo i 250mq del muro dell’Autostazione di Bologna, in viale Masini, realizzati, appunto, da voci, stili e sensibilità differenti, quelle di Bruna Alcantara, Camila Rosa, Cartel de Caracas, Coco Guzmán, Diana Ejaita, Giulia Mazza, Mafreshou, Marta Iorio, Muna Mussie e Yele, il tutto sotto la direzione artistica di CHEAP, che a quanto pare attinge a un serbatoio inesauribile di buone idee quando si tratta di trovare il modo per regalare alla collettività qualcosa di complesso e allo stesso tempo accessibile su cui rimuginare.

(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)

Ai poster visivi, si aggiungono poi quelli testuali, che riportano estratti dal pensiero di autrici femministe di diverse generazioni e provenienze, da Angela Davis a bell hooks, da Audre Lorde a Leslie Feinberg, da Roberta Marrero a Maria Galindo, Ana Esther Ceceña, Nawal El Saadawi, Leslie Kern e Françoise Vergès. Si tratta di testi scelti e selezionati da consigliere d’eccezione, e cioè filosofe, studiose di genere, porno attiviste, architette, scrittrici, curatrici, scienziate, economiste, ricercatrici e femministe, anch’esse appartenenti a generazioni differenti.

«L’intersezionalità è un paradigma in continua evoluzione», spiegano da CHEAP. «Da parte nostra c’è l’esigenza curatoriale di strutturare processi che siano realmente intersezionali, sperimentando nuovi strumenti di partecipazione, di presa di parola, di riappropriazione dello spazio così come del discorso pubblico. Insieme a questa urgenza, sentiamo la necessità di trovare soluzioni formali per esprimere la polifonia che ogni conversazione femminista porta con sé: in questo senso, pensiamo che nella realizzazione di un wall ad opera di artistə diversə che lavorano con media diversi risuoni l’idea di un femminismo plurale».
Il progetto — realizzato con il sostegno della Regione Emilia Romagna — non si è limitato ai manifesti (che rimarranno affissi fino a fine settembre) e, anzi, è iniziato già lo scorso aprile con una serie di incontri, e prevede anche workshop nelle scuole e una serie di podcast in collaborazione con NEU Radio.

(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
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(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
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(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
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(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
(courtesy: CHEAP | foto: Margherita Caprilli)
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