L’anno scorso abbiamo iniziato a usare il cosiddetto schwa (o scevà), cioè il simbolo — questo: ǝ — che nell’alfabetico fonetico internazionale designa la vocale centrale media. Quel suono che, ad esempio, emettiamo quando in inglese pronunciamo people (/’piːpəl/), again (/ə’gen/), woman (/’wʊmən/), e che ritroviamo anche in alcuni dialetti, tipo nel napoletano mammǝtǝ e fratǝmǝ.
Lo ǝ è solo uno dei tanti modi proposti per superare la connotazione di genere fortemente spinta verso il maschile della nostra bella lingua. Se fin dalla scuola ci insegnano che per il plurale, laddove ci si riferisca a un gruppo misto di persone, è necessario usare il maschile sovraesteso — «venite tutti qui», direbbero la maestra o il maestro, anche se magari ad ascoltarlo ci sono 22 bambine e 2 bambini —, negli ultimi anni si stanno cercando soluzioni “altre”, per una lingua che possa rispecchiare una società che vogliamo più inclusiva, non patriarcale, più fluida riguardo alle questioni di genere.
Ci sono altre soluzioni: l’asterisco, la x, la u, la @, l’underscore — tutt*, tuttu, tuttx, tutt@, tutt_ — e altre ancora. Non c’è una regola universalmente accettata e, anzi, sono in molte e molti coloro che esprimono disappunto riguardo a questo tipo di istanze.
Schwa, asterischi e simili sono solo proposte ed esperimenti. Le lingue cambiano e si evolvono ma non lo fanno mai per imposizione dall’alto. Però, come sostiene la sociolinguista Vera Gheno — tra le prime a sostenere l’uso dello schwa — sperimentare, appunto, non è vietato.
Perché abbiamo iniziato a usare lo ǝ?
Non è stata una decisione presa a tavolino ma il prodotto naturale di una riflessione iniziata tempo prima, con in mezzo tante letture, ripensamenti, se e ma e però.
Forse, se proprio dobbiamo identificare la proverbiale palla di neve che ha dato il via alla valanga, allora probabilmente il “merito” dovremmo darlo a un puerile articolo di Mattia Feltri sulle pagine de La Stampa (è chiuso dal paywall per chi non ha l’abbonamento, e forse è meglio così).
Ma c’è voluto altro tempo prima di “buttarci” con un primo articolo contenente un ǝ.
Senza fare grandi annunci in merito, da allora abbiamo cominciato a usarlo più diffusamente, sia qui sul sito che sui social e la newsletter, e sia al singolare (ǝ, Ǝ) che al plurale (з, З), seguendo le indicazioni del sito Italiano Inclusivo. Da lì abbiamo preso anche il suggerimento di inserire sulle nostre tastiere — su smartphone come su pc — le “scorciatoie” giuste: passo necessario dato che sulla tastiera tradizionale questi simboli non appaiono.
Il sondaggio

Qualche giorno fa, sabato 5 giugno, abbiamo deciso di lanciare un piccolo sondaggio tra le lettrici e i lettori della nostra newsletter.
L’abbiamo fatto perché un paio di persone iscritte, cancellandosi dalla lista, hanno indicato come motivazione proprio l’uso dello schwa.
Una in particolare, ha lasciato un messaggio che cominciava così:
«Mi disiscrivo con molto dispiacere, dopo diversi anni che vi seguo. Purtroppo l’utilizzo della schwa ha trasformato la lettura della vostra newsletter da momento piacevole a momento di fastidio».
Pur non considerandoci nella schiera di coloro che vogliono per forza piacere a chiunque, non neghiamo di aver provato un certo disappunto. Anche questo, da piccola palla di neve, si è fatto valanga, diventando la molla che ci ha fatto propendere per provare a “tastare il polso” della situazione.
Da qui il sondaggio, semplicissimo. Tre sole possibilità: sì, no, altro — quest’ultima apriva un box da usare per dare una risposta più articolata.
Di quasi 4700 persone che ricevono la newsletter (tra queste il tasso di apertura è di circa il 41%), hanno risposto in 231. Tra chi ha risposto, in 199 hanno preferito i semplici sì e no, mentre 32 hanno espresso la loro opinione in maniera più estesa. Ed è proprio tra quelle opinioni che sono usciti pensieri che per noi sono davvero interessanti.
Abbiamo deciso di riportarne alcuni, in rappresentanza di differenti idee, problematiche e approcci, alcuni molto distanti tra loro. Ci sembra infatti particolarmente importante farlo, tanto più dal momento che, proprio nei giorni in cui il nostro sondaggio era in corso, è uscita fuori l’ennesima polemica, stavolta scatenata da un articolo di Michela Murgia (anche questo sotto paywall), che ha usato lo schwa sull’Espresso.
È importante perché quello in questione è uno di quei temi di cui è fondamentale parlare (e, no, non è che dando spazio a un argomento del genere lo si toglie agli altri, come non è che pensare di legiferare sullo ius soli e sull’omofobia impedisca di occuparsi della crisi economica e delle politiche sul lavoro: queste sono le scuse che accampa chi vuole distogliere l’attenzione da qualcosa di importante).
E lo è a prescindere dalle posizioni, che per giunta in molti casi sono ancora incerte, mutevoli, permeabili, visto che ci troviamo in territori ancora poco esplorati.
È importante, infine, anche perché sappiamo benissimo che quella che abbiamo deciso di provare — di sperimentare — non è la soluzione.
Alla questione della difficoltà di lettura per chi è non vedente e usa i lettori di testo, che spesso fanno pasticci con lo schwa, noi, onestamente, non avevamo pensato. Né ai problemi per chi ha disturbi come la dislessia. Su questo, pochi giorni fa, è intervenuta la stessa Vera Gheno. Neanche lei ha la risposta giusta, assoluta, e ha il coraggio di dirlo: «penso che saranno le nuove generazioni, con una visione più fluida della vita e del genere, a trovare una soluzione a cui noi non abbiamo pensato» spiega.
«Andate avanti a fare quello che volete, perché è quello che dovete» ci ha scritto un nostro lettore.
E noi crediamo sia più che mai necessario continuare a sperimentare e a cercare. Senza arroccarsi su posizioni rigide. Senza infantili canzonature nello stile del succitato Feltri e di tanta altra gente che preferisce non porsi nemmeno il problema e lasciare le cose come sono, comode — ma solo per alcuni, che spesso (ma non sempre) sono proprio quelli con la i.
P.S.
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