Coi suoi taccuini ormai diventati quasi l’archetipo del concetto stesso di notebook, Moleskine non ha certo bisogno di presentazioni.
Non tutti, però, conoscono la Moleskine Foundation, un’entità no profit che — sebbene supportata dall’azienda — né è totalmente indipendente. Nata nel 2017 come sviluppo ed evoluzione di lettera27, creata nel 2006 da Maria Sebregondi, co-fondatrice di Moleskine, insieme a un gruppo di imprenditori e operatori culturali e sociali, Moleskine Foundation si occupa di sostenere il diritto all’istruzione e di — cito dal sito della fondazione — «fornire ai giovani strumenti didattici ed esperienze formative non convenzionali che incoraggino il pensiero critico, il fare creativo e l’apprendimento permanente, con particolare attenzione alle comunità segnate da carenze socio-culturali».
Attorno a questo progetto ruotano diverse iniziative, tra le quali una collezione di taccuini d’artista: oltre 1000, realizzati da grandi nomi come Ron Arad, Spike Jonze, Sigur Rós, Paula Scher, Massimiliano Fuksas, ma anche da piccole realtà.
Una raccolta che continua ad arricchirsi anche grazie a un altro programma organizzato da Moleskine Foundation, e cioè AtWork, un format educativo itinerante ideato insieme al critico, curatore e scrittore camerunese Simon Njami.
Fin dal 2012 AtWork si sposta in tutto il mondo, organizzando workshop che coinvolgono artisti, designer e associazioni, ai quali partecipano soprattutto studenti e giovani creativi emergenti, che durante i laboratori realizzano, a partire da un tema, dei taccuini d’artista che successivamente vengono messi in mostra e spesso entrano poi a far parte della collezione di Moleskine Foundation.
Dopo Senegal, Costa d’Avorio, Uganda (due tappe), Egitto, Italia (due tappe: Modena nel 2016 e Roma nel 2018), Etiopia, Zimbabwe (due tappe), Portogallo, Camerun, Chad, Stati Uniti e Gabon, AtWork è tornato in Italia, a Venezia.
La fase di workshop, che è iniziata il 9 settembre e si conclude oggi, 13 settembre, ha coinvolto venticinque ragazze e ragazzi tra i 18 e i 30 anni, molti dei quali sono in Italia da rifugiati o richiedenti asilo.
Quella della migrazione è un aspetto fondamentale del progetto. La tappa veneziana, infatti, fa parte di un piccolo tour interamente focalizzato sul tema — Where is the South? — che va a indagare, appunto, il concetto di Sud.
Scrive Simon Njami:
I punti cardinali hanno due funzioni: quando si riferiscono a un luogo o una regione, sono scritti in maiuscolo; e quando riguardano una direzione o un orientamento, in minuscolo.
I nostri giorni hanno preferito la prima opzione alla seconda. Quando qualcuno dice Sud oggi, è chiaro nella sua testa che sta designando un punto preciso, che, a pensarci, è totalmente inaccurato. Per esempio, cosa rappresenta realmente l’espressione Global South, se non una dichiarazione politica? Un modo che l’ordine mondiale ha scelto per nominare delle regioni in opposizione ad altre? Tutte le volte che sento l’espressione: Paesi del Sud, mi chiedo sempre quale sia il messaggio nascosto, dato che il Sud è sempre considerato, e non importa se diventa una rivendicazione di qualche tipo, come inferiore.
In quest’ottica, al workshop hanno preso parte anche alcuni partecipanti di un altro laboratorio affine, B&W – Black & White, la tendenza migrante, promosso dalla piattaforma artistica Nation25 e diretto da Caterina Pecchioli.
Il risultato della fase laboratoriale di AtWork Venezia sarà in mostra dal 17 settembre al 24 novembre 2019, ospitata — in collaborazione con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati — all’interno dell’esposizione Rothko in Lampedusa, dove le opere di alcuni artisti internazionali (Ai Weiwei, Adel Abdessemed, Christian Boltanski, Nalini Malani, Abu Bakkar Mansaray, Richard Mosse, Dinh Q. Le, Artur Zmijewski) dialogano con quelle di artisti rifugiati.