Maître de la Mazarine, “Musta'sim Billâh rinchiuso da Hulegu” (fonte: commons.wikimedia.org)

La Casa della Sapienza di Baghdad

Baghdad nel 1250 era una delle città più importanti del mondo. Baghdad vuol dire letteralmente “Città della Pace”. Tra le vie da Mille e una Notte della città c’era un posto unico al mondo: il suo nome era Bayt al-Ḥikma, ovvero “La casa della sapienza”, una delle più prestigiose istituzioni culturali del mondo.

La Casa della Sapienza nacque orginariamente dalla biblioteca privata del califfo abbaside al-Rashid nel 832. In pochissime generazioni raggiunse lo straordinario patrimonio librario di mezzo milione di volumi. In Europa le biblioteche cristiane non arrivavano un migliaio di volumi.
In realtà la biblioteca — anche se è riduttivo definirla biblioteca e tra poco scoprirete il perché — aveva più di mezzo milione di volumi perché molti libri potevano contenere più opere all’interno. Libri in lingua greca, siriaca, ebraica, copta, persiana, sanscrita.

Bayt al-Ḥikma aveva anche la funzione di università pubblica dove si svolgevano corsi di specializzazione, in particolar modo in medicina. Era pure un ospedale e tutti gli uomini di qualsiasi etnia o sesso potevano essere curati gratuitamente. Un luogo dove conoscenze mediche provenienti da tre continenti si mescolavano al servizio dell’umanità.

Bayt al-Ḥikma
(fonte: commons.wikimedia.org)

All’interno della Casa della Sapienza c’era un osservatorio astronomico dove progredirono le conoscenze stellari a quel tempo ferme a Tolomeo. In particolar modo fuorono migliorate le Tavole astronomiche del Sind e dell’Hind, tavole che vennero usate addirittura da Cristoforo Colombo per il suo viaggio nelle americhe. Vi lavorarono anche alcune tra le personalità più eminenti del mondo arabo, tra cui ricordiamo al-Khwārizmī — a cui dobbiamo il termine algoritmo (alla base di ogni pc) e il termine algebra —, al-Kindī, pioniere delle crittografia, al-Rāzī, il primo a descrivere il vaiolo e l’asma allergica, e tanti altri che rivoluzionarono il mondo della matematica, dell’astronomia e della filosofia.

La Città della Pace il 10 febbraio del 1258 fu rasa al suolo dai mongoli. Il nipote di Gengis Khan, Hulagu Khan ne fu l’artefice. Il compito affidato al nuovo Khan era quello di sottomettere tutti i popoli musulmani fino ai confini dell’Egitto. Hulagu lasciò la Mongolia nel 1253, aveva al suo seguito il più grande esercito mai visto, 120 mila uomini. L’impero mongolo andava dall’Oceano Pacifico fino al Volga. Qualsiasi popolazione sottomessa doveva obbligatoriamente fornire un soldato ogni dieci uomini.

Maître de la Mazarine, “Musta’sim Billâh rinchiuso da Hulegu”
(fonte: commons.wikimedia.org)

Dopo aver conquistato Samarcanda e le terre di Persia, Khan non ci mise molto ad arrivare alle porte dell’odierno Iraq. I mongoli spazzarono via anche la setta dei famosi hashishiyyn, da cui deriva la parola italiana “assassino”.
Il più grande desiderio di Khan era Baghdad e inviò più volte emissari dal califfo al-Mustanṣir per chiedere la sottomissione, ma il califfo rifiutò. Adirato e infastidito Khan inviò al califfo una minaccia sottoforma di poesia:

«Quando conduco adirato il mio esercito contro Baghdad,
ovunque tu ti nasconda in cielo o in terra
ti precipiterò dalle rotenati sfere;
ti lancerò in aria come fa un leone.
Non lascerò in vita nessuno del tuo regno;
brucerò la tua città, il tuo territorio, te stesso.
Se vuoi salvare te e la tua venerabile famiglia,
dà retta al mio avviso con l’orecchio dell’intelligenza.
Se non lo farai tu vedrai ciò che Dio avrà voluto.»

Il califfo rispose con le armi. Un attacco a sorpresa che però non minacciò minimamente i mongoli, che scacciarono i musulmani, i quali si rifugiarono dentro le mura di Baghdad.
Durante l’assedio si aggiunsero alle truppe di Khan altri ventimila uomini. La Città della Pace fu accerchiata e tutte le vie di comunicazione bloccate. I mongoli volevano far morire di fame i musulmani.

Rachid Ad-Din, “Hulagu e sua moglie Dokuz Kathun”
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Il nipote di Gengis riuscì ad aprire un varco tra le mura di Baghdad il 10 febbraio del 1258. Furono tutti trucidati. Sopravvisse solo un bambino, mandato come ostaggio in Mongolia, e una ragazza, che il capo dei mongoli volle come schiava. La città fu saccheggiata e i cristiani che abitavano in città fuorono salvati grazie alla moglie di Hulagu, Doquz Khatun, una cristiana, la quale si vantava di discendere da uno dei Re Magi.

La furia dei mongoli non risparmiò la Casa della Sapienza, dove lavoravano tremila studiosi stipendiati dal governo abbaside.
La biblioteca era così famosa nel mondo arabo che è alla base di un antico proverbio che dice: «Gli egiziani scrivono libri, i libanesi li commerciano, ma è a Baghdad che vengono letti».
Il primo policlinico della storia dell’umanità, dove oltre trecento medici curavano esseri umani di ogni provenienza, insegnando contemporaneamente a migliaia di giovani, perì sotto il fuoco delle frecce incendiarie mongole.

Bayt al-Ḥikma
(fonte: commons.wikimedia.org)

E ora immaginate quello che sto per raccontarvi come se fosse un film.
L’assedio e la fame stringono in una morsa infernale i cittadini della Città della Pace. I mongoli sfondano le linee di difesa ed entrano nella grande biblioteca, migliaia e miglia di volumi vengono gettati nel fiume Tigri. Opere di ogni lingua, opere di ogni materia, provenienti da tutto il mondo, opere uniche, scomparvero in pochissimo tempo.
Si narra che le acque del fiume si colorarono di nero per l’abbondante inchiostro delle pagine dei libri distrutti. E qui, in questo inferno, fanno ingresso gli sconosciuti protagonisti di questo racconto. Gente senza nome, senza volto, studiosi e studenti che, rischiando la vita, rischiando di essere trucidati, lapidati e colpiti a morte dai mongoli, sfidarono il destino gettandosi nel fiume Tigri per salvare i libri.

Senza protezioni, senza armi, gente comune si mostrò al nemico per recuperare pergamene, carta, rotoli e libri. Sfidarono la corrente e i cecchini provenienti dalle steppe. Si lanciarono nell’acqua salvando il salvabile, più libri contemporaneamente.
Non conosciamo i loro nomi, sappiamo però che uno di quei libri è giunto fino ai giorni nostri è un volume pregiato, un interpretazione del Corano e dell’Islam del XIII secolo. Oggi, dopo 800 anni, è ancora sugli scaffali iracheni della biblioteca al-Qadiriyya.

È un libro sopravvissuto due volte, alla furia mongola e all’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, che portò alla distruzione di ben dieci biblioteche e librerie. Bande armate, nel 2003, hanno distrutto la libreria di oltre settantamila volumi dell’Università di Belle Arti di Baghdad. Niente è rimasto di oltre 170.000 pezzi unici del Museo cittadino, dei manoscritti unici al mondo, manoscritti ottomani.

Se oggi ancora abbiamo il piacere di poter sfogliare quel libro scampato ai distruttori, lo dobbiamo nuovamente a gente comune che, sedici anni fa, salvò attraverso una catena umana i volumi della biblioteca di Al-Qadiriyya. Per un’intera giornata nascosero volumi nei sotterranei, nelle cantine, in posti segreti. Un intero giorno, mentre la città veniva bombardata dagli americani.
Cosa spinge un uomo a rischiare la morte, la fine della propria vita, il non vedere più i propri familiari, per mettere in salvo un libro?
Forse l’identità, la storia, la cultura, la tradizione che quelle pagine custodiscono.

Oggi, all’interno della biblioteca, è possibile ammirare manoscritti del Corano in oro, altri testi dipinti a mano, donati da califfi e sovrani di mezzo mondo. Ancora una volta il “divide et impera” ha funzionato benissimo. L’Iraq è uno stato fallito, ma tra quella gente c’è ancora chi metterebbe il proprio petto sotto la mira di un freccia o di un cecchino pur di salvare la cultura del proprio paese.

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