Calendari, biglietti da visita, le civette delle edicole, i cartoncini di auguri, i coupon omaggio, le ricette dei medicinali, la parcella del commercialista, il biglietto del bus, l’agendina regalata dal benzinaio, l’invito a una festa, pagine di quotidiano, pacchetti di sigarette: è una lista — assai abbreviata — di tutto ciò che rientra in una grande categoria dai confini non ben definiti, che porta il nome di ephemera.
Come ho già spiegato un paio di volte, si tratta di un termine che non ha una traduzione italiana e che — sebbene non abbia una definizione universalmente accettata — indica tutti quei materiali stampati (ma non solo) pensati per un uso limitato nel tempo. Deriva dal greco ephemeros, cioè “che dura un giorno”, dal quale provengono anche l’aggettivo effimero, le efemeridi (le tavole astronomiche che indicano la posizione delle stelle in un dato periodo) e l’ordine degli efemerotteri, insetti che vivono pochissimo.
Precari, transitori, passeggeri, gli ephemera sono tuttavia collezionati in tutto il mondo e — oltre a essere oggetti sui quali restano appiccicati ricordi personali e memorie di famiglia — sono anche una testimonianza molto interessante sia dal punto di visto storico che da quello grafico. Non a caso sono tanti i designer e i tipografi che ne hanno cassetti pieni (uno su tutti: Anthony Burrill).
Tra i più grandi collezionisti di questo tipo di materiali c’è Stella Mitchell, che insieme al marito Dave ha fondato, nel 1991, in un piccolo paesino inglese ai confini con il Galles, la Land of Lost Content, un museo interamente dedicato agli “scarti” della società inglese prodotti prima dell’era digitale: vecchie radio, insegne, giradischi, pubblicità, riviste, oggetti per la casa, giocattoli e, ovviamente, tanti, tantissimi ephemera.
«Mi piace pensare alla mia collezione come a una “fanfara”, una celebrazione dell’uomo comune. Colleziono ciò che viene scartato da una società che conserva ciò che è perfetto», spiega la signora Mitchell nell’introduzione a Great British Rubbish, un libro prodotto dalla nuova casa editrice indipendente britannica CentreCentre, fondata dal progettista grafico londinese Patrick Fry e specializzata in pubblicazioni riguardanti archivi e raccolte.
In 208 pagine e oltre 120 oggetti (fotografati da Inge Clemente) il libro presenta alcuni tra i più interessanti esemplari di ephemera conservati presso il museo Land of Lost Content, accompagnati da un saggio a cura della storica del graphic design Teal Triggs.
Particolare curioso quanto interessante: tra le carte utilizzate per il libro c’è anche la GF Smith Extract, prodotta a partire dalla spazzatura.