Fino a una certa età un bambino non sa fare l’occhiolino. Non ci riesce proprio, coscientemente, a chiudere una palpebra e a guardare con un occhio solo. E quando poi finalmente ce la fa, non capisce bene da che occhio guardare. Puoi fare la prova con un rotolo di carta igienica: il pargolo strizzerà l’occhio nel “cannocchiale” e lascerà aperto quello sbagliato. Un grande classico, per mamme e papà.
Un giorno però la coordinazione la spunterà, le palpebre si apriranno e chiuderanno a comando, sinist-dest-sinist, e inizierà la lunga, critica e affascinante fase dello “spionaggio”. Dagli un buco in cui guardare e lui sarà lì a sbirciare: lo spioncino della porta, le serrature (trampolino di lancio per il futuro immaginario erotico) e, se qualcuno ha la buona idea di comprarglieli, o comunque farglieli usare, il microscopio e il telescopio.
Dei potenziali futuri astronomi, biologi o maniaci sessuali sono giusto a una sbirciata stellare di distanza…
Il fatto di essere più a portata di mano e di portafogli, più semplice da usare e utilizzabile indoor, fa sì che il microscopio sia molto più diffuso tra i ragazzini in età scolare rispetto al suo cugino con la testa tra le nuvole, che è ben più ingombrante e delicato, mediamente più costoso, assai complicato da puntare, di uso prettamente notturno, e soprattutto senza l’equivalente dei “vetrini già pronti” dei microscopi didattici. Non è che metti su l’oculare giusto e appare una galassia, non funziona così. A parte la luna e il sole (rischiosissimo se non si usa un filtro apposito, che comunque è facile che si surriscaldi e si spacchi: chiedere a mio padre per credere) per vedere qualcosa al telescopio bisogna davvero saperlo usare. E, soprattutto, occorre avere un modello di un certa potenza ottica anche solo per ammirare Giove o Venere, che sono praticamente dietro casa, figuriamoci oggetti lontani come nebulose e galassie.
Ecco perché sono molte meno di quel che pensi le persone che nella vita hanno messo l’occhio sopra all’oculare di un telescopio e visto davvero le meraviglie dello spazio profondo. E poi per forza quando parli di pulsar, di materia oscura, buchi neri al centro della galassia, lenti gravitazionali, stelle già morte che per noi sono ancora lì belle splendenti, per forza che poi quasi tutti ti scrutano come a dire beh, sì, vabbè. Che diavolo ne sanno se non hanno mai guardato davvero nell’infinito e oltre?
Perché c’è una cosa, dentro a un buon telescopio puntato nel cielo stellato in una limpida e fresca notte, magari dalla cima di un monte o giù di lì, sotto a un tappeto luminoso che in città già te lo sogni, una cosa che nessuna foto della NASA piazzata come sfondo dello schermo di un computer potrà mai darti.
Quella cosa è la percezione dello spazio, dell’immane distanza che c’è tra te, laggiù, e gli anelli di Saturno. Tra te e una galassia a spirale. Tra te e la nebulosa testa di cavallo.
Certo, è una distanza talmente enorme che non la puoi capire ma di certo la puoi sentire. E ti darà la più grossa vertigine della tua vita. Lì, con l’occhio incollato sull’oculare, ti sembrerà di stare a strapiombo sul vuoto nero dell’infinito.
È in momenti così che la gente sceglie di darsi alla scienza, alla religione o alle droghe psichedeliche: per metterci il piede, dentro a quell’infinito, a proprio rischio e pericolo (pericolo di sentirsi meno che insignificante, di diventare ottuso, di prendere la via della pazzia).
Per un ragazzino, stretto tra presenti e futuri drammi di livello cosmico (la scuola, la famiglia, gli amici, la libertà, il disagio, il corpo in evoluzione, l’apparenza, le modalità di comunicazione, la misteriose e spesso ipocrite leggi morali e pratiche degli adulti, un’intera gamma di emozioni e sensazioni mai sperimentate prima) quel salto nel vuoto ugualmente cosmico può significare la presa di coscienza rispetto a una tridimensionalità del vivere che fino a quel momento era solo abbozzata, supposta, intuita ma mai veramente sperimentata. Una tridimensionalità che allarga lo spazio in cui espandere un sé che comincia a star stretto tra i confini della famiglia e delle relazioni quotidiane.
Un viaggio, questo, (e il mio è un invito a partire appena possibile) che è meglio fare con qualcuno accanto: una mamma o un papà, uno zio, un nonno ad accendere interrogativi che non basta una vita per provare a rispondere, a raccontare anche solo una delle tante storie che l’umanità ha disegnato lassù, tra le stelle, nel corso di migliaia di anni o anche semplicemente a condividere la meraviglia.
E non serve spendere cifre astronomiche — giacché siamo in tema — né avvistare esotiche nebulose che tanto non sembreranno mai belle come quelle di uno screensaver: la foto lassù in alto l’ho scattata io appoggiando l’obiettivo del telefono all’oculare di un telescopio che è poco più di un giocattolo, dal mio minuscolo balconcino in una qualsiasi notte bolognese. A volte basta davvero solo la luna. E qualcuno con cui dividerne un pezzetto.