Se proprio dovessi morire…

Prima che cominciate a leggere questo articolo, voglio rassicurarvi: sono in perfetta salute, non ho dolorini strani e anzi, sono piuttosto in forma: ho anche cominciato a correre e per l’estate mi sono comprato uno skate longboard per surfare in strada che è una meraviglia.
Certo, una fatalità può sempre capitare e se anche non fosse, prima o poi – spero il più tardi possibile – suppongo che la senzadenti, come la chiamano a Napoli, verrà a smarcare il mio nome dalla lista.

E’ superfluo parlare qui della paura di morire che, come dice Woody Allen in Anything else, “è piuttosto comune tra gli essere viventi”.
Ciò che mi fa realmente paura è il dopo.
E per dopo non intendo l’aldilà, quel luogo dove è sempre sabato pomeriggio, tutti suonano l’arpa ma non puoi avere la password per il wi-fi.
No, il dopo al quale alludo io è il subito dopo, quello che si consuma prima che simpatici vermetti abbiano consumato te.


«Esiste vita dopo la morte?»
«Sì.»
«E viaggiano in orario, i treni, laggiù?»
Time Out, Horacio Altuna

Il dopo che mi preoccupa è quello delle esequie, dei discorsi, dei ricordi.
Sì, perché, come dice un vecchio proverbio “Chi nasce è bello, chi si sposa è buono e chi muore è santo”.

Non so perché i morti acquisiscano per il solo fatto di essere trapassati, un curriculum di bontà inedito e sconosciuto fino a un momento prima, possibilmente legato a un’altrettanto sconosciuta riscoperta dei valori cristiani, talmente interiore da essere ignorata anche dai congiunti e dagli amici più stretti.

Qualche tempo fa, cercando cose su internet sono incappato nella biografia Wiki di uno sconosciuto musicista che sembrava anche l’autore della medesima. Il bello di Wiki è che le pagine sono in qualche modo filtrate da una serie di moderatori. Su quella, ricordo la dicitura: “Questa pagina sembra scritta con troppa enfasi.”
Ecco, perché ai funerali non c’è nulla di simile? Bisognerebbe pensarci.


A un funerale:
«Scusi chi è il morto?»
«Quello sdraiato nella prima vettura.»
Barzelletta

Sia come sia, nell’eventualità – anche se piuttosto remota – che quando morirò, tra circa duecento anni, esistano ancora internet e il blog di Frizzifrizzi, vorrei puntualizzare alcune cose che mi riguardano, prima che di me si dica:

1.Era così buono

Mai stato buono. A meno che io non perisca divorato dagli squali, ma per attestare la mia bontà bisognerebbe poi intervistarli.

2.Ultimamente aveva riscoperto la fede

Non credo proprio. Dopo la cresima, che per qualche motivo i miei genitori – che non andavano mai in chiesa – mi spinsero a fare, io e la religione ci siamo lasciati.
Sapete una di quelle cose tipo: “Semmai ti chiamo io.”
Poi nessuno dei due ha mai chiamato. Ogni tanto a dire il vero lei ha suonato il citofono, ma è stato molto tempo fa, poi ha lasciato perdere.
Non ho mai capito se quelli come me si chiamano atei o agnostici, ma la religione mi interessa talmente poco che non ho mai approfondito.


Ogni minuto muore un imbecille e ne nascono due.
Eduardo De Filippo

Puoi cercare tutta la vita di essere popolare, ma alla fine della fiera, al tuo funerale,
le dimensioni della folla saranno dettate in larga parte da che tempo farà.
Frank Skinner

3.Voleva bene a tutti

Falso. Io detesto il genere umano. So che dovrei essere più tollerante, ma è un fatto più forte di me: odio in modo particolare gli idioti.

4.Era così modesto

Ma scusate, se non avessi un ego smisurato avrei scritto questo articolo?

5.Pensava sempre agli altri

Falso. Nella top 3 delle cose a cui penso di più ci sono:
3° posto: Chitarre
2° posto: Storie da scrivere
1° posto: Non lo dico perché sono un gentleman.

6.Ultimamente aveva riscoperto la fede / 2

Sono passati solo 5 minuti dall’ultima smentita e non è cambiato nulla.
Facciamo così: il giorno che mi capita di avere un’epifania, faccio una dichiarazione su Twitter.


Il vecchio Moyshe giace moribondo nel letto. L’amico Yankel cerca di consolarlo.
«In fondo dovresti essere contento: stai per lasciare questa valle di lacrime.»
«Sì, ma ci piangevo così bene!»
Barzelletta ebraica

Ora, facciamo un po’ un discorsetto sull’abbigliamento. Non pretendo un funerale con le conigliette di Playboy e la cassa portata da quattro tizi in Harley Davidson (anche se penso che non sia un’idea da scartare. Nel dubbio, terrei le conigliette.)
Non pretendo nemmeno il coro di voci bianche che canta un medley degli Smashing Pumpkins e Black Sabbath però vediamo di non eccedere nell’ordinario.
Non ho mai messo una cravatta in vita mia e ai piedi porto solo All Star o anfibi.
Di solito porto pantaloni aderenti, ma prima che io muoia penso che saranno tornati di moda quelli a zampa d’elefante almeno 35 volte, quindi fate un po’ voi. L’importante è rimanere in tema. E voi sapete benissimo quale. Nel dubbio sul colore, col nero non si sbaglia mai.

T-shirt di qualche band: ok. Sapete cosa mi piace ascoltare. Anelli e collane: fate voi, se volete distribuirli agli amici perché abbiano un ricordo, non mi oppongo. Sennò li porto via volentieri.
Le chitarre, so di non poterle portare, a meno che non mi sia eretto un mausoleo, cosa che per altro non troverei inadeguata. Comunque, nel caso debbano restare da questa parte, vedete di trattarle bene e ogni tanto cambiategli le corde.


«Vorrei comprare un loculo al cimitero.»
«Benissimo, per quanti?»
«Monoposto.»
«In che zona lo preferisce?»
«Non fumatori.»
Wizard of Id, Parker & Hart

In memoriam / 1

Possiamo evitare i discorsi retorici del tipo: “Sebbene lavorasse in Francia e in America da una vita, il suo cuore batteva per l’Italia” e stronzate del genere?”
Dopo la religione, l’Italia è un’altra mia ex. Ci siamo lasciati di comune accordo.
Del resto io non ne sono mai stato davvero innamorato, è stata una storia adolescenziale, come la fidanzatina delle medie con cui stavi perché si faceva toccare le tette, ma poi ti piaceva l’amica di tua sorella più grande che andava alle superiori.
Io e l’Italia abbia fatto un po’ di petting, poi abbiamo capito entrambi che non era cosa.
Per di più non piacevo ai suoi. Ogni tanto ci si vede ancora, siamo rimasti amici.
Nel frattempo ognuno si è fatto le sue storie. Nessun rancore.


Una donna perde il marito e va al giornale per mettere un annuncio. L’annuncio costa cinquanta dollari e la donna dice all’impiegato:
«Scriva solo: Max è morto.»
«Guardi che con cinquanta dollari può scrivere sei parole.» dice l’impiegato.
«Va bene.» dice allora la donna. «Scriva: Max è morto. Vendesi jeep Toyota.»
da Il Club delle vedove

Titoli di coda

Non lo so perché, ma il manifesto funebre ispira sempre un bisogno di riempimento.
Forse perché il costo è calcolato a forfait? Comunque chi rimane vivo difficilmente resiste alla tentazione di aggiungere qualche vezzo sotto il nome, per certificare che il morto era qualificato. Abbastanza spesso i manifesti funebri svelano cose imbarazzanti, come il secondo nome del trapassato e improbabili titoli di cui si era sempre astenuto di fare menzione.

Lo confesso, qui adesso, prima che lo sappiate per vie traverse: sono un perito aziendale. Non chiedetemi cos’è, perché non l’ho mai capito. So solo che indeciso tra il liceo artistico e ragioneria, ho preso ragioneria e dopo 5 anni ho conseguito il titolo.
Penso che i periti aziendali attivi, si siano estinti da anni. Quelli passivi, come me, che hanno raggiunto il titolo studiando (pochissimo) nel tempo libero tra disegnare fumetti e suonare la chitarra, vivono felici senza che nessuno gli ricordi il loro triste passato.
Quindi, questa cosa, non la tireremo fuori a tradimento poco prima che io scenda nella nuda terra, vero?

Se proprio non volete scriverci
grandissimo autore
e sotto più in piccolo
come era modesto!
va benissimo
fumettista
oppure
chitarrista
o anche
skater
oppure
gli piacevano le patate fritte
Ma niente stronzate, eh?


Com’è crudele la storia! A soli sei mesi dalla sua morte, nessuno a Rimini ricordava chi diavolo fosse A. Rampoldini.
E pensare che era stato l’uomo più famoso della Romagna. O la donna ?
Tiziano Sclavi

In memoriam / 2

Non credo che la Svizzera, dove sono nato, reclamerà mai le mie spoglie, né che lo faccia la Sicilia che mi ha dato il cognome. Su Genova invece, città dove sono cresciuto e ho abitato a lungo, ho qualche dubbio.

Per chiarezza, mi rivolgo ai genovesi: lo so io e lo sapete voi, non sono mai stato genovese, vero?
Siamo d’accordo su questo? Mi avete sempre chiamato svizzero, perché si sa, siete degli inguaribili spiritosoni. Io del resto mi sono integrato poco, non ho mai imparato una parola in dialetto, a parte bélin, e non mi è mai piaciuto De André.
So fare il pesto ma lo faccio senz’aglio, e lo so che vi fa incazzare. Sono un fan dei cartoni animati di Mazinga Zetto (versione parodiata in genovese del celebre cartone giapponese) ma questo non fa curriculum.

A Genova, quando chiedevo al Comune di fare una mostra non c’era mai il posto, se proponevo un’iniziativa non c’era mai un soldo. La stampa locale mi ha sempre cordialmente ignorato, i critici genovesi fingono da anni che io non esista, perché diciamolo, se non lecchi il culo non sei simpatico a nessuno.
Siamo d’accordo che non vi sono mai piaciuto e che va bene così? Non verrà fuori una mia presunta genovesità o che io da lontano piangevo di nostalgia per la lanterna e minchiate simili, vero?


Se dopo la vita non c’è nulla, quello che mi domando è: mi ci abituerò?
Pino Caruso

In memoriam / 3

A una cosa ci terrei, infine, in modo particolare. In Italia non ho mai vinto un premio per i miei libri e il mio lavoro in generale. Non importa, davvero, non voglio fare nessuna polemica su questa cosa, nessun discorso del tipo che ne ho vinti a decine ovunque tranne che in Italia o robe del genere. Sul serio, non mi importa.
Però, questo sì: non voglio nessun premio alla carriera post mortem. Perché mi farebbe veramente incazzare. Se avete premi da darmi, fatelo mentre sono vivo.
Dopo, risparmiatevi la fatica.
In ogni caso, non verrò a ritirarli.


CALVIN
Non capisco questa faccenda della morte. Se dobbiamo morire, cosa cavolo viviamo a fare?
HOBBES
Beh c’è il fritto misto…
Calvin & Hobbes, Bill Watterson

Postilla

Appena pubblicato quest’articolo mi scrive Giuliano Doria, direttore del Museo Civico di Storia Naturale “Doria”
che mi dice: «Come, non c’era mai posto per le tue mostre?! Da noi c’è stato!»
Ha ragione. Il Museo dove, da bambino, ho passato innumerevoli domenica di pioggia e di sole tra gli animali impagliati, di mie mostre ne ospitò ben due!
La prima, nel 2000, ANIMANI, era dedicata all’opera di Mario Mariotti. La seconda nel 2006 si intitolava BESTIARIO IMPROBABILE ed era una collettiva di illustratori, tra cui Serge Bloch, Lynda Corazza e Javier Solchaga.
Fu l’ultima mostra dal vero che ho organizzato in un luogo pubblico e una delle rare che ho mai curati in spazi comunali. Da allora sono passato a spazi digitali perché la disponibilità di Giuliano e del suo staff erano una cosa rara.
Tra una mostra e l’altra al museo Doria, in giro ne proposi a decine. Ma come risposta ho sempre e solo avuto no.

Una volta un assessore mi lasciò parlare fino all’ultimo mostrando un entusiastico interesse. Poi tirò fuori un quadernino con i prezzi delle sale comunali per pagargli l’affitto. Con una biblioteca trattai per un anno la mostra di un vignettista romano. Solo dopo un anno si resero conto che si trattava di vignette gay e che non volevano esporle perché l’omosessualità li metteva in imbarazzo (anche se non lo hanno mai ammesso).

Detto questo, a Genova non mi mancano gli amici, so di avere anche molti fans che mi hanno sempre sostenuto, ho tenuto corsi e laboratori, ma la stampa, i critici e gli intellettuali—salvo eccezioni—mi hanno sempre cordialmente ignorato.
Che dire? Nessun problema.
Facevano finta che non esistessi quando lavoravo in Italia, ora che lavoro in Francia nessuno scrive mai neanche una riga. Hanno già da fare a scrivere dei loro amichetti.
Mi va benissimo. Solo, trovo ridicolo quando i giornali titolano: italiano vince Nobel per la scienza, e poi scopri che vive in America da 45 anni. Quindi quello che mi auspico è che nessuno reclami mai la mia genovesità: ne ho sempre avuta poca, pochissima, come del resto ho avuto poca italianità.

Anche in Italia so di avere molti fans, e nessuno ci crede quando dico che i miei libri non li voleva nessuno, però è così. Ora che sono pubblicati fuori ogni tanto ne traducono qualcuno, ma quando li proponevo alle redazioni la risposta era solo no. Ho lavorato e lavoro con diversi editori e di recente ho iniziato qualche nuova collaborazione, ma rimane il fatto che il 90% di quel che faccio è fuori dall’Italia.
Che dire? Non vorrei che questo post diventasse una discussione seria!
Ognuno deve trovare il suo posto! Io penso di avere trovato il mio, ma ripeto: niente premi da morto. Non verrò a ritirarli.

editorialista
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