La calma Olimpica (e altre storie)

Fino a poco tempo fa ero uno di quelli che alle Olimpiadi seguiva solo l’atletica perché, come scrivono David Goldblatt e Johnny Acton nel loro Olimpiadi, edito da ISBN ed uscito poche settimane fa:

«La presa che l’atletica olimpica esercita sull’immaginario globale è connessa alla semplicità delle discipline che la costituiscono. Tutti noi siamo in grado di relazionarci al correre, al saltare e al lanciare […] ci sono gare fatte su misura per gente bassa e scattante (i 3000 siepi), o lunga e secca come un insetto (il salto in alto), o di misura extralarge (lancio del martello o getto del peso) [che] fanno sì che chiunque possa trovare uno sport nel quale identificarsi [e] le emozioni suscitate dalle gare d’atletica sono in genere direttamente proporzionali alla semplicità del gesto. “Salta più lontano che puoi” è una frase palesemente più semplice di “fai due balzelli meglio che puoi lasciandoti l’energia sufficiente un grosso balzo finale”».

Poi, vivendo con una che si rilassa con le gare di tuffi, si esalta con le evoluzioni delle ginnaste e tollera persino – cito ancora i due autori – «i lustrini e quei sorrisi […] di inquietante immobilità [di uno sport che è] parente stretto di un musical hollywoodiano» del nuoto sincronizzato, ho imparato ad assaporare gesti atletici che cadono leggermente, sensibilmente o estremamente oltre il confini di ciò che ritengo minimamente interessante, e ad utilizzare quel baraccone mediatico, commerciale, artificiale e un po’ patetico delle Olimpiadi come strumento essenziale per fare un po’ di pulizie cerebrali, spazzando via accumuli di tensione, briciole di pensieri incompiuti e mettendo in ordine i cassetti mentali che col tempo vanno riempiendosi di roba inutile, togliendo aria e spazio alle idee nuove che di tanto in tanto s’affacciano da quelle parti.

Vedere gente che corre, che suda, che piange, che fa finta di sorridere, che fa smorfie di affascinante bruttezza, che cade e si rialza o cade e poi s’incazza, che entra in scena sapendo che per lui o lei non c’è possibilità di avere un ruolo anche minimo nella storia di una disciplina che comunque continua a fare perché ama, perché non sa far altro o perché qualcuno l’ha costretto/a. Vedere gente che s’impegna fino al limite ed oltre, mentre io me ne sto sul divano a svuotare di impulsi elettrici e chimici il mio cervello, riesce a farmi sentire di buon umore. La stessa sensazione che provo dopo aver fatto lavori fisici, quella che a differenza di ogni lavoro di concetto riesce a darti la pace di un relax totale e senza sensi di colpa, quando il mondo fuori può pure esplodere, fanculo a chi si azzarda a telefonare, fanculo a tutti gli iperconnessi, gli entusiasti, i sagaci, i cinici, gli annoiati, gli indignati, i lei-non-sa-chi-sono-io. Sto guardando le Olimpiadi, vacca troia, e il mio cervello non ha tempo che per sé e per quei sudati ometti che si muovono in tv.

***

Già, la tv. Nella sua ennesima dimostrazione di pochezza culturale (gli esempi sono innumerevoli) ed economica (l’Esempio sono appunto le Olimpiadi) la Rai non le trasmette, trasformando immediatamente i Giochi Olimpici di Londra 2012 in un affare per benestanti. Qui in casa, dove le prove a sostegno di un certo minimalismo a livello di portafogli non mancano, abbiamo risolto scroccando l’accesso a Sky Go. Basta un computer o un iPad, un parente o un amico compiacente e ti trovi ben dodici canali a disposizione. Per non parlare delle (magari un po’ ingarbugliate) possibilità che offre lo streaming, quest’ultimo permettendoti pure di zompare con lo slancio di un saltatore triplo le italiche, materne, compiacenti telecronache.

Olimpiadi, un libro per guardarle meglio

Consiglio, a chi avesse intenzione di fare sul serio e godersi pure gli sport minori come il badminton, il tennis tavolo, la canoa, la lotta, di acquistare il succitato volume ISBN, disponibile pure nella (più comoda) versione ebook, pieno di spiegazioni su ogni singola disciplina, con le regole, la storia, il perché vale la pena perderci tempo ed un’infinità di aneddoti sul meraviglioso show dei cinque anelli + fiaccola.

E’ lì che scopro che dal 1900 al 1920 un’attività da sagra di paese come il tiro alla fune era disciplina olimpica. E pure il bike polo – inventato in Irlanda a fine ‘800 e assai più democratico di quello a cavallo – ha fatto la sua comparsata durante Londra 1908 per poi sparire nel nulla (anche se visto il suo recentissimo ritorno in auge in ambito hipster, chissà che non possa esserci un prossimo rientro).
Leggo di un certo Ray Ewry, detto “l’uomo rana”, che si riempì di medaglia d’oro dal 1900 al 1908, quando i salti si facevano da fermi e lui, da ragazzino ammalato di poliomielite, aveva le gambe allenatissime per tutti gli esercizi che doveva fare per alzarsi dalla sedia a rotelle.

Leggo pure di un maratoneta – Fred Lorz – che nel 1904 tagliò il traguardo per primo dopo essersi fatto scarrozzare per 17 km dal suo allenatore. In auto.
O dello sfigatissimo Donardo Pietri, cameriere carpigano, che sempre nella maratona, nell’edizione successiva, entrò per primo nello stadio ma poi non vinse perché assolutamente sfiancato dalla stanchezza imboccò la pista nel senso contrario e cadde cinque volte, raggiungendo il traguardo con l’aiuto dei giudici e venne poi squalificato dopo il ricorso del secondo classificato.

E se non le trovi nel libro, alle storie arrivi lo stesso: vedendo che il record olimpico del salto il lungo resiste dal 1968 faccio ricerche su Bob Beamon – il detentore – e leggo che il suo record l’ha fatto sotto i postumi di una triste sbornia a base di tequila e che fu necessario andare a prendere un metro a nastro perché la strumentazione d’ordinanza dell’epoca non arrivava agli 8,90 del saltatore americano.

Celo, celo, manca

Per scoprire quali altri sport sono stati tolti nel tempo, quali introdotti – magari per fare un favore al paese ospitante – e quali invece messi e tolti a singhiozzo, c’è un efficace infografica dello studio americano MGMT.Design.

clicca per ingrandire
Paragoni a 8 bit

Il Guardian, invece, ha realizzato uno splendido videogame ispirato a vecchi arcade a 8 bit per riuscire a darti un’idea – visiva! – della differenza tra te che te ne stai spaparanzato sul divano e quelli che stanno dall’altra parte dello schermo a faticare. L’unico modo, forse, per convincere quelli che pure io riuscirei a farlo che invece no, non riuscirebbero, e meglio continuare a starsene sul divano, magari con la bocca chiusa.

Medaglie minimal

Chi ha vinto cosa? Tra siti e applicazioni l’eccesso di informazioni è sempre in agguato.
Quando vuoi semplicemente sapere quanto medaglie sono state assegnate e a quale paese ti consiglio Medal Count, sito minimale ma aggiornato in tempo reale, con la possibilità di mettere in watchlist più di una nazione e seguire il calendario degli eventi, impostandolo pure sul proprio fuso orario.

risultati aggiornati al 30/7 alle 15,45, quando ho scritto il post
Ai tempi miei…

Per una prospettiva storica del medagliere globale c’è invece la sottile metafora montuosa di una serie di grafici che permettono di vedere, Olimpiade per Olimpiade, tutte le vittorie ed i podi Paese per Paese.
Scorrendo in avanti nell’asse del tempo ci si rende conto di come i cinesi, partendo da una desolata pianura siano prima riusciti a salire sopra a dignitosissime collinette prima di arrampicarsi sulle le montagne ed infine tentare l’attacco alle pareti verticali, riuscendoci benissimo.

Chi twitta cosa

Dopo la prima rivoluzione (quella araba), il primo terremoto + tsunami + disastro nucleare, il primo terremoto italiano, i primi Europei di Calcio, l’Era Twitter ha finalmente pure i suoi primi Giochi Olimpici.
In seguito alla twittatissima cerimonia d’inaugurazione, seguita come fosse una fiction Rai o Mediaset in prima serata, il mondo si è diviso in categorie: chi twitta ogni singolo risultato con la stessa urgenza di chi si trovasse a seguire in diretta esclusiva la fine del mondo; chi commenta con piglio critico; chi fa analisi geopolitiche; chi, sostenendo di odiare chi twitta di Olimpiadi finisce per farlo pure lui, commentando chi commenta con un certo senso di superiorità chi commenta le Olimpiadi.
C’è poi chi retwitta e basta; chi si inserisce nei discorsi; chi minaccia il defollow a chiunque si azzardi anche solo a twittare di Olimpiadi e chi – la Grande Massa Silenziosa – se ne frega beatamente, preferendo stalkerare @ famose e rivolgendosi loro come fossero cugini lontani.
Per un riassunto visivo di cosa scrive il Popolo di Twitter (< – sarcasmo) c’è Emoto, che in tempo reale fa una rassegna dei topics ed analizza i tweets decifrandone il contenuto positivo o negativo e presentando il tutto come una sorta di origami che si spiega a partire dall’argomento e permette con un solo colpo d’occhio di capire se la rete ne stia parlando bene o meno.

Ah, poi c’è la Seconda Grande Massa Silenziosa. Ben più grande della prima. E’ quella dei web-analfabeti che fanno spallucce e preferiscono andare al bar, guardare la finale di nuoto e parlarne con persone vere, magari davanti ad una birra spillata di fresco.

Sei grande, grande, grande

Dopotutto a ciascuno la sua grandezza (o piccolezza). Basta trovarla.
Lo dice pure Nike, che quando c’è da far soldi confezionando in uno splendente pacchettino energetico e/o lacrimoso tutto il ventaglio di emozioni di chi sta lì a nulla facere davanti ad una tv o a battere tasti davanti allo schermo di un computer, è sempre in prima linea.

http://www.youtube.com/watch?v=_hEzW1WRFTg

Cerchio + cerchio + cerchio + cerchio + cerchio

E intanto il braciere, tranne un momentaneo e sacrilego spegnimento causa spostamento del medesimo, continua ad ardere, in attesa di una torcia vagamente massonica che lo sposti dall’altra parte del mondo, sotto ai cinque cerchi (rappresentazione grafica dei cinque continenti) del logo inventato da De Coubertin (massone pure lui). Logo che ha sempre interpretato lo zeitgeist, lo spirito del tempo, diventando simbolo prima di un’ingenua illusione (le primissime edizioni dei Giochi), poi del potere politico e militare (Berlino ’36 e tutte le edizioni in tempi di Guerra Fredda) fino a diventare dagli anni ’90 in poi specchio della dittatura commerciale.

Mentre in rete c’è chi si sbizzarrisce nel attribuire ai cinque cerchi significati apocalittici ed anticristici, un artista – Gustavo Souza – ha pensato bene di utilizzarli per raccontare un mondo di merda. Il nostro.

[via Coudal, Information Aesthetics, NotCot e pensieri sparsi, davanti ad una birra ed una gara di tiro con l’arco, sul divano rosso di casa]

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