Ho incontrato e parlato al telefono, via mail, di persona con F.D. (le iniziali stanno per un generico Fashion Designer, il perché dell’anonimato lo spiego più avanti) più volte negli ultimi anni. Esattamente come con decine di altri suoi colleghi e concorrenti.
In special modo di questi tempi chiedo spesso a chi lavora nel settore moda da new entry, da outsider o comunque nella posizione di chi deve lottare ogni singolo giorno per sopravvivere — cosa comune tra i piccoli marchi Made in Italy — come vanno gli affari, se si muove qualcosa, soprattutto com’è la situazione italiana.
Insieme ad una quantità di frasi di circostanza di tanto in tanto qualcuno ti guarda negli occhi e decide di dirti la verità. F.D. è uno di questi.
Ascoltando il suo sfogo, gli (il maschile qua è generico) ho proposto di renderlo pubblico attraverso le pagine di Frizzifrizzi.
Per la cronaca: F.D. avrebbe voluto metterci la faccia ma visto il mare in cui nuota, con una densità di squali più alta della media, pronta a fartela pagare con cinica e vendicativa soddisfazione, gli ho consigliato l’anonimato. «Non sei uno Stefano Pilati» gli ho detto, giusto per citare uno che può permettersi di togliersi dalla scarpa tutti i sassolini che gli pare «a te possono farti fuori con l’abilità di un cecchino e io di certo non voglio averti sulla coscienza!».
Insieme, dunque, abbiamo deciso di lanciare questo sasso. Per aprire un po’ gli occhi al pubblico sui backstage non sempre scintillanti del Sistema Moda in Italia, sulle problematiche delle giovani realtà che non hanno alle spalle capitali di famiglia che ti permettono di “giocare a fare lo stilista” a cuor leggero e soprattutto per vedere se in questo mare di squali c’è qualche pesciolino che vuole raccoglierlo il nostro sasso e magari iniziare a fare gruppo e a metterci la faccia tutti assieme.
Ora lascio la parola a F.D. e quanti vorranno commentare, discutere, diffondere quello che ha da dire.
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Critica della ragion pura / critica della ragion pratica (italiana)
Quando, un paio di settimane fa, parlando con Simone uscì fuori la proposta di scrivere un piccolo sfogo di cosa succede ai brand emergenti nel cosiddetto Sistema Italia ero al settimo cielo. In questo paese emergere e portare a casa un risultato sta diventando una missione impossibile e avevo voglia di raccontare la mia esperienza, sicuro di non essere l’unico in questa situazione.
Nei primi due giorni raccolsi un po’ di idee su come strutturare questa “denuncia verbale”. Oggi mi ritrovo a non sapere più da dove iniziare perché in due settimane me ne sono successe così tante da poterci scrivere un romanzo. Il mio umore è ai minimi storici e la voglia di andare avanti cala come l’asticella di un termometro ficcato sotto all’ascella di un cadavere.
Faccio parte di un team creativo che ha sempre puntato all’eccellenza sia per quanto riguarda la manifattura dei propri prodotti, le materie prime utilizzate, sia per quanto riguarda l’immagine del marchio, il posizionamento nei negozi, la copertura da parte di magazine e blog. Ognuno di questi punti potrebbe diventare un capitolo del suddetto romanzo. Li userò, riassumendo, per raccontare la mia situazione.
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La ricerca della materia (non siamo in Final Fantasy VII)
È la base per una collezione sia di abbigliamento che di accessori. Riuscire a trovare quel tessuto, quella passamaneria che possono diventare il tuo biglietto da visita, il tuo quid che possa permetterti di emergere tra una miriade di competitore. È una ricerca lunga, complicata. E devi essere pronto ad una lotta fino all’ultimo sangue con i fornitori.
I pagamenti sono tutti alla consegna, nessuno ti dà fiducia. Le consegne non vengono sempre rispettate e qualora si volesse esporre reclamo è solo fiato sprecato, hanno sempre ragione loro.
Delle volte campioni degli articoli pensando di utilizzare del made in Italy quando in realtà si tratta di materiale d’importazione e lo scopri solo quando ti avvertono che ci sono problemi alla dogana… (e ti domandi “perché mai mi stanno parlando di dogana?!”).
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È una chimera o è un produttore?
Una volta avuta l’idea, buttata giù la collezione e trovato i materiali per realizzarla devi affidarti ad un fasonista che ti confezioni il tutto.
In Italia aleggia da tempo questa parola — crisi — per cui ci si aspetta che anche le piccole produzioni vengano prese in considerazione ma non è così. O il tuo ordine raggiunge i quantitativi minimi oppure nemmeno ti considerano.
A quel punto cerchi in qualche modo di raggiungerli, questi minimi, creando un magazzino magari sproporzionato rispetto alle tue necessità, magazzino che di sicuro farà le ragnatele. Ma se vuoi entrare nel mercato e farti conoscere abbassi la testa e fai il tuo mega-ordine.
Il campionario che presenti è studiato per bene, hai preso mille accorgimenti, tutto è realizzato con una precisione certosina. Ma ecco che in produzione iniziano a limare le rifiniture. Solo quelle, mica il costo! Che rimane quello preventivato nonostante tutti quei piccoli dettagli che hai studiato vengano pian piano eliminati.
Fai subito notare le modifiche e la risposta che ottieni è: «il campionario era stato fatto in un altro periodo, ora le cose sono cambiate e se vuoi che il capo sia identico a quello di campionario il prezzo va rivisto».
Ovviamente non vuoi fare brutta figura con i negozi ma soprattutto hai una fastidioso tarlo dentro di te che si chiama morale per cui non vuoi scendere a compromessi e anche se sai che ci rimetterai dei soldi vuoi che ogni cosa venga fatta esattamente come era stata presentata al negozio.
Sarebbe bello se la storia dei fasonisti finisse qua ma la vera chicca è che prima ti si presentato come confezionatori che fanno in proprio poi però misteriosamente mutano aspetto come una Chimera e diventano terzisti…
In pratica la tua produzione viene affidata ad un laboratorio cinese dietro l’angolo. Lì, spesso, quella di cucire diritto è una richiesta impensabile.
Grazie al cielo sono un tale rompiscatole che alla 5ª volta che chiedo di vedere un campione di solito scopro la magagna e chiudo immediatamente i rapporti. Ritrovandomi però con una produzione da portare a casa e la necessità di cercare di corsa un altro fasonista, che come un predatore fiuta la fretta e per realizzare il tutto chiede solo il doppio.
Ti ritrovi, dopo mille difficoltà, con dei capi di qualità per i quali hai già concordato il prezzo con il negoziante e visti i costi di produzione lievitati rischi di andare in rosso.
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Showroom. Ma dov’è la mia collezione?
Una volta pronto un campionario bisogna intraprendere una campagna vendite. Quale luogo migliore di uno showroom!
In realtà ad un brand alla prima collezione consiglio di non fare una cavolaia simile. I rischi sono tantissimi.
Molte volte ti viene chiesto un fee d’entrata (parliamo di cifre anche notevoli) e capita che a fine campagna vedi che il tuo venduto non la copre neanche tale fee.
Altre volte lo showroom ti prende gratis perché vede in te un astro nascente ma in realtà ti mette in un angolino in fondo in fondo per tappare un buco e fare solo un po’ di colore.
Altre volte ancora i buyer chiedono di te ma lo stesso showroom sconsiglia l’acquisto e gira il loro interesse su altri brand con i quali hanno già fatto buoni numeri e vogliono consolidare la stagione.
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Boutique. Scherzi ma noi paghiamo subito!
Finalmente sei pronto per consegnare e, rispettando tutti gli accordi presi durante il periodo di campagna vendite, emetti fatture con pagamenti dilazionati per facilitare la vendita e far bella figura con il negozio.
Essere pagato da un negozio in Italia è più complicato che imparare il sanscrito.
La cosa simpatica (a dire il vero non c’è nulla di simpatico) è la miriade di scuse che incominci a ricevere e collezionare:
– scusa ma ho avuto problemi a vendere la tua merce (sì ma se la ricarichi del 320% quando il mio prezzo consigliato era di gran lunga inferiore di chi è la colpa?);
– c’è crisi la gente non entra nei negozi fa troppo caldo o fa troppo freddo;
– ah, non ho visto la fattura;
– colpa delle poste, hanno smarrito l’assegno ed io ho smarrito il documento di spedizione.
Potrei continuare con l’elenco ma sarebbe troppo lungo… la cosa più bella è vedere i proprietari di queste “boutique” o “concept store” che dicono di non avere soldi e di non riuscire a pagarti, proponendo soluzioni a 120/150 gg dalla consegna merce ma poi su facebook vedi che hanno comprato l’ultima borsa di Balenciaga, fanno vacanze in Honduras oppure cenano in posti top ogni sera, dove ovviamente 3/4 scatti delle pietanze che ordinano non possono sfuggire al mitico Instagram!
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Blog & Magazine. 100 € e copio/incollo il tuo comunicato stampa
Esser pubblicati sul web o sul cartaceo è fondamentale.
Per far questo esistono le agenzie di PR che — giustamente — hanno un cachet mensile. E il più delle volte si tratta di cifre importanti.
Per risparmiare qualcosa un brand in fase di start-up decide di fare la parte press tutto da solo: usando i social network, ricercando nelle ultime pagine delle riviste le persone di riferimento, ecc.
A tutto ero preparato tranne al fatto che numerosi blog, appena invii una richiesta di pubblicazione fornendo tutto il materiale necessario (lookbook, still-life, press release) ti rispondono dicendoti che per un articolo sul loro sito si paga dai 100 € in su.
Sia ben chiaro non tutti i blog operano in questo modo. Altri ti chiedono semplicemente dei regali o altri ancora nulla e lo fanno solo per amore del proprio lavoro.
Alcuni lo fanno sì gratis ma poi fanno un semplice copia/incolla del comunicato che hai inviato tu.
Per quanto riguarda le riviste cartacee, puoi inviare il tuo lookbook stampato o digitale, regali o lettere di presentazione, ma puoi star certo che la possibilità che si accorgano di te è quasi nulla.
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Come ho scritto all’inizio, ogni punto potrebbe essere approfondito. E di molto. Queste sono le mie (e magari solo le mie) problematiche. Ma credo che la mia situazione sia quella di molti altri marchi emergenti, qui in Italia. Se qualcuno dovesse trovare riscontro nelle mie parole credo sia giusto – per se stesso, per i lettori, per me, per tutti quanti – che lo esprima. Magari come me in forma anonima. Se fossimo in molti potremmo metterci la faccia.
Per quanto mi riguarda, io amo il mio lavoro e continuerò a farlo, stringendo i denti e cercando di farmi scivolar di dosso parassiti, anatemi, momenti di sconforti che vorrebbero/potrebbero portarmi a chiudere.
F.D.