Una cosa divertente che non farò mai più

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E allora oggi è sabato 10 settembre e sono seduto su una delle due panchine a ridosso di un fazzoletto di verde da qualche parte poco lontano da Porta Venezia, a Milano, dopo esser uscito e rientrato in hotel tre volte, indeciso se passare la mattinata a scrivere a letto o farmi un bagno di umidità e di milanesi alla ricerca di un posto tranquillo lontano da chi ti chiede spicci, sigarette o dispensa consigli di vita (niente male, comunque), possibilmente vicino a un bar, ché ho un limite di 1000 battute, poi devo alzarmi a bere qualcosa.
Ho qualche ora da ammazzare, in compagnia di piccioni, cani che abbaiano, turisti russi grassi con algidi trofei sessuali al seguito, famiglie con passeggini e bimbi che piangono (mamma, che cazzo, ma non lo senti che umidità? Voglio stare nudo – questo direbbero, se potessero), una sosia di Rita Levi Montalcini, con bastone, che mi fissa – uno sguardo lungo quanto i 5 passi/minuto – facendo il punto su quella specie di fiume umano nel quale mi sono immerso più o meno volontariamente appena due sere fa: la Vogue Fashion Night Out. Se devi scegliere il carnaio più alla moda dove perdere i sensi, la ragione o il portafogli, quella è la serata giusta.

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Ho visto vagoni della metro che straripavano di gente, il sudore mescolarsi come nell’orgia di un film porno tedesco. Ho visto bimbi sull’orlo del collasso che maledivano i padri e ancor di più le madri, schiacciati da gomiti griffati e borsette borchiate. Ho visto uomini trasparenti supplicare sconosciuti per un sorso di qualcosa da bere che non avesse il colore di una sostanza chimica da laboratorio. Ho visto (e sentito) gente che calpestava piedi per il solo gusto di farlo, regalando al mondo l’impronta di sé, surrogato terra-terra (letteralmente) dei warholiani 15 minuti di celebrità.

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Ospite di Ramazzotti, che per tutta la sera ha tenuto alto il mio spirito e il mio morale a suon di Ramatonic – sono arrivato al punto di distinguere la “mano” di un barman da quella dell’altro nonostante la ricetta piuttosto semplice: 1 parte di Ramazzotti, 4 di acqua tonica, ghiaccio e fetta d’arancia – ho percorso le vie del quadrilatero della moda al ritmo di un metro al minuto (ché la sosia della Montalcini di stamattina, al confronto, era una sprinter) stringendo mani, ascoltando le mille varianti – roche, stridule, sibilanti, tonanti, squillanti – del mio nome, ripetuto ad ogni presentazione, accompagnato da sguardi che andavano dal vacuo all’entusiasta al momento di rivelar chi fossi: sor Frizzifrizzi, non certo il campione di mondanità che ci si aspetterebbe, stesso stile da tempo immemore, macchietta a due espressioni – a là Clint Eastwood – con la barba o senza.

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Nella libertà totale (la più complicata, tra tutte le commissioni che possa capitarti di ricevere), uno schermo bianco davanti, che come un’allucinazione mi è apparsa davanti agli occhi per tutto il tempo mentre venivo abbracciato, riconosciuto, aspettato, indicato, calpestato, ho scritto col pensiero articoli pieni di cancellature, camminando in mezzo al fiume tirato a lucido della notte Vogue, tra gente che riempiva negozi dove per un giorno entrare senza vergognarti di non poter comprare niente, alla ricerca di facce amiche, momenti da raccontare su facebook, nomi da aggiungere su facebook, foto da esibire su facebook, bevute a scrocco, omaggi limited edition e parole preziose, limited edition pure quelle, ciascuno un pezzo di quel fiume, nella democraticità assoluta del perder se stessi e regalare a quello o quella che hai davanti l’esatta quantità di energia cinetica che il tizio dietro di te ti sta donando.
Poi trovi un angolino vuoto, svolti a destra, spegni il telefono e guardi il cielo. Non sei ancora a casa, ma il resto della notte promette bene.

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