Quick Fix: basta una pillola a risolvere tutto?

Prestare attenzione, produrre, performare, non perdere tempo, fornire feedback immediati, essere efficienti, socievoli, brillanti, positivi, propositivi, proattivi, rispettare tutte le scadenze, offrire prestazioni sessuali soddisfacenti, sconfiggere la stanchezza e il sonno, sapersi rilassare senza però rilassarsi troppo, decomprimere la tensione, contenere la rabbia, bandire la tristezza, non farsi prendere dall’ansia, non annoiarsi mai: la società contemporanea — quindi la scuola, il lavoro, le relazioni sociali — è costruita e settata su questo “modello” artificiale di essere umano.
Direttamente o indirettamente, la comunicazione, i rapporti di potere e le regole sociali ci dicono che così dovremmo essere e — direttamente o indirettamente — colpevolizzano il singolo che non riesce o perlomeno non prova a uniformarsi a tali irrealistici standard, al contempo mettendogli a disposizione un enorme apparato di dispositivi chimico-farmaceutici per “riparare” ciò che “non funziona”.

Viviamo in un mondo di pillole. Pillole per mantenerci ben attenti, pillole per restare attivi, pillole per calmarci, pillole per simulare la felicità, pillole per dormire, per non dormire, per scopare, per dimagrire, per scolpire il fisico, per sopire la rabbia, per soffocare i pensieri, per dominare l’ansia, per nascondere il mal di vivere.
Una dopo l’altra, il protagonista del corto d’animazione Quick Fix le butta giù.

Realizzato da Chris O’Hara, regista d’animazione irlandese di base a Los Angeles, il filmato ruota interamente attorno a un uomo, da quando è un bambino fino al crollo, una sorta di burnout, quando il corpo e la mente alzano bandiera bianca.
La scena si svolge quasi tutta dentro a un claustrofobico cerchio, che ha la forma di pillola ma che forse rappresenta anche un ideale obiettivo puntato addosso, come quello che sempre di più ci pare di percepire in ogni istante della nostra vita.

«Hai un problema? Non preoccuparti, c’è una pillola per risolverlo» è il grande sottinteso del vivere contemporaneo, e noi supinamente accettiamo la situazione senza porci le domande fondamentali, e cioè: «è davvero un problema? Chi lo dice? E soprattutto: perché lo dice? Chi ci guadagna nel fare in modo che sia considerato un problema?».

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