La Biblioteca di Sarajevo

Sarajevo 1992. Agosto. Il caldo non ferma la guerra. Sui tetti i cecchini non dormono. Vedono il mondo dal mirino degli M40 di alta precisione. Sarajevo è una groviera. Fumo e palazzi sventrati. Le granate cadono come stelle cadenti. È il 25 agosto, forse il 26, non importa. È notte quando suona l’allarme. 4 bombe sulla Biblioteca Nazionale di Sarajevo cancellano 400 anni di storia, cancellano la Vijećnica. Non è un errore, ma perché bombardare qualcosa che non spara? Kemal Bakaršić, bibliotecario risponderà a questa domanda dicendo: «perché qui dentro la loro guerra non esiste, qui sugli stessi scaffali convivono scrittori serbi e bosniaci, ebrei e musulmani».
Vogliono cancellare le tracce di una storia comune.

I resti della biblioteca nel 1996 (foto: Hettie van Nes | fonte: commons.wikimedia.org)

6 giorni di bombardamenti. Vengono distrutti mezzo milione di libri, 470 manoscritti. Piove dal cielo neve nera, parole carbonizzate, pezzi di libro in fiamme. Lo scrittore Goran Simić scriverà: «liberati dalla canna fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e le anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto di un cimitero distrutto; ho visto Quasimodo dondolante sul minareto di una moschea. Raskol’nikov e Meursault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava col nemico; il giovane Sawyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte Principov».

Con la biblioteca ancora in fiamme e sotto il tiro dei cecchini, decine e decine di studenti, professori, bibliotecari, gente comune, formano un cordone umano per salvare i libri. Salvano parole rischiando la vita. Si passano volumi incandescenti. Aida Buturović ha 33 anni, è una bibliotecaria, anche lei è con gli studenti a salvare i libri. Una granata, forse un proiettile di un cecchino, la trapassa. Così è morta a 33 anni, cercando di salvare carta e inchiostro. Della vecchia sala di lettura della Biblioteca Nazionale di Sarajevo non resta niente.

Durante la guerra nessun posto era sicuro a Sarajevo, tranne la sala di lettura, dove nelle freddi notti d’inverno la gente senza casa si riscaldava. I libri venivano nascosti nelle cantine, dovunque. Tra i titoli salvati dalle fiamme c’è una copia di una Haggadah ebraica. Un libro già scampato alla furia dei nazisti, già scampato ad una guerra, un libro che non vuole bruciare. A salvare a Sarajevo la copia di un libro ebraico fu un musulmano, che non si preoccupò di ciò che c’era scritto, non si preoccupò se condivideva quelle idee, lui pensò a salvare quelle righe affinché potessero essere ancora utili a qualcuno.

Vedran Smailović tra le rovine, 1992 (foto: Mikhail Evstafiev | fonte: commons.wikimedia.org)

Della Biblioteca di Sarajevo, l’ultimo luogo visitato da Francesco Ferdinando prima di essere assassinato dal nazionalista serbo Gavrilo Princip, resta solo lo scheletro. Sulle macerie il violoncellista Vedran Smailović, unico sopravvisutto del quartetto d’archi di Sarajevo, suona l’Adagio di Albinoni, suona per tre ore senza mai fermarsi, tranne per un attimo in cui si asciuga le lacrime. L’Adagio di Albinoni fu “ricostruito” dal musicologo e compositore italiano Remo Giazotto, attraverso dei frammenti di spartiti ritrovati tra le macerie della biblioteca di Dresda, rasa al suolo la notte di San Valentino del 1945 dalla RAF inglese e dai B.17 americani. Rasa al suolo dalle “fortezze volanti”.
Smailović in smoking suona dal 27 maggio 1992, giorno della “Strage del Pane”. 22 persone sono in fila davanti ad un forno, durante un tregua, per acquistare del pane. Un colpo di mortaio le uccide tutte, altri 50 esseri umani vengono feriti. I cecchini completano l’opera finendo i feriti a colpi di fucile, quasi fosse un tiro a segno. Da quel giorno per 22 giorni, alla stessa ora della strage, Smailović indossa il suo smoking e suona l’Adagio per i 22 morti.
Smailović suonò gratuitamente ai funerali della povera gente, gente che non conosceva, suonò nonostante i funerali fossero il bersaglio preferito dei cecchini. Suonò perché le gente diceva: «non smettere, altrimenti Sarajevo cadrà».

Dopo 20 anni la Bilioteca Nazionale di Sarajevo è stata riaperta, Smailović vive in Irlanda, mentre Aida Buturović è ancora lì che cerca di salvare Don Chisciotte dai mulini a vento in fiamme.

La facciata della biblioteca, restaurata e riaperta nel 2014 (foto: Alen Djuderija Photography | fonte: commons.wikimedia.org)
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