Il carattere tipografico nell’arte contemporanea

Quando è uscito di scena come strumento per la produzione industriale di massa, il carattere tipografico è diventato oggetto d’interesse per il mondo dell’arte che lo ha accolto, insieme alla lettera e al segno alfanumerico, come motivo di riflessione e rielaborazione per gli artisti che ne hanno esplorato le potenzialità creative ed evocative.

La parola irrompe nelle arti figurative con le avanguardie storiche: le prove tipografiche di Mallarmé ed i calligrammi di Apollinaire precedono le sperimentazioni poetiche, visive e fonetiche dei Futuristi italiani che, prima ancora di confezionare le tavole parolibere o i libri imbullonati di Depero, testarono invenzioni di font e grafiche attraverso la rivoluzione tipografica dichiarata da Marinetti contro il libro classico e passatista. L’irruenza della retorica futurista iniziò efficacemente a rompere schemi che sembravano granitici dal punto di vista della composizione della pagina sul torchio e, di conseguenza, del risultato sulla carta.

Guillaume Apollinaire, “Cheval”, dalla raccolta “Le Bestiaire, ou Cortège d’Orphée”, 1911 (fonte: commons.wikimedia.org)

Molti dei movimenti artistici del ventesimo secolo si sono interessati allo studio di logotipi e caratteri tipografici, dando un contributo importante all’evoluzione della grafica. Gli esercizi tipografici di Kolomon Moser per il periodico della Secessione Viennese Ver Sacrum riprendevano l’evoluzione delle idee peculiari dell’Arts&Crafts e dell’Art Nouveau; la Bauhaus di Walter Gropius «si proponeva di integrare l’arte e la tecnologia al fine di attribuire un valore estetico alla produzione di massa»; e ancora l’incontro fra Costruttivismo e Dadaismo esplorava «la diagonale e le contrapposizioni volutamente aspre dei caratteri diversi per spessore e corpo».

Ma il periodo più prolifico per lo studio del rapporto fra parola ed immagine è stato senza dubbio quello a cavallo degli anni sessanta con la ricerca delle Neoavanguardie italiane e la poetica dei movimenti della Poesia Visiva e Poesia Concreta. Molti artisti si muovevano nella sperimentazione di un nuovo modo di esprimersi cimentandosi nei libri d’artista (anche se vanno quasi immediatamente “oltre il libro” con opere che fin da subito hanno poco a che fare con i caratteri tipografici). Si tratta di un filone artistico di grande interesse per il periodo tanto da occupare una sala del padiglione centrale della Biennale di Venezia del 1972 (Il libro come luogo di ricerca, curata da Renato Barilli e Daniela Palazzoli).

Nello stesso periodo alcuni artisti fanno uscire le parole dalla bidimensionalità della pagina invadendo lo spazio urbano: è il caso di Robert Indiana, esponente della pop art statunitense che deve la gran parte della sua fama alla sua opera più celebre, il motivo “LOVE”, nato come cartolina natalizia commissionatagli dal MoMA nel 1964, e divenuta in seguito scultura di oltre tre metri in acciaio cor-tén installata in Sixth Avenue a New York e in seguito in altre città. Proprio in “Love”, fra le opere che lo stesso artista ha definito “poesie scultoree” è rintracciabile l’interesse di Indiana per il carattere tipografico, come lui stesso afferma commentandola: «nei testi tipografici composti a mano, la O è inclinata. Non è stata una mia invenzione, ho solo proseguito una tradizione».

Koloman Moser, copertina per la rivista “Ver Sacrum”, 1899 (fonte: commons.wikimedia.org)

Il corrispettivo italiano della poesia scultorea di Indiana può essere la grande “A” di Renato Spagnoli installata nel 2005 in piazza Attias a Livorno. Ma già negli anni sessanta Spagnoli, che faceva parte del gruppo Atoma, ripeteva ossessivamente la prima lettera dell’alfabeto nelle sue opere. Lettere che nei suoi lavori sono interpretate come oggetti, senza interesse per la semantica.

Ketty La Rocca utilizzava il carattere come rappresentazione del suono. Con le installazioni Le presenze alfabetiche del 1969 le parole sono prima di tutto un fatto reale, fisico, nelle due dimensioni dello spazio e del tempo. Le enormi lettere di Ketty La Rocca conservano la propria veste tipografica ma, uscendo dalla pagina scritta e invadendo lo spazio della quotidianità, non solo diventano un fatto concreto e tangibile, ma vogliono significare «l’infinita capacità di propagazione dell’atto di parola».

Renato Spagnoli, “A”, 2015 (foto dell’autore)

A partire dagli anni ottanta i caratteri tipografici entrano nell’area di interesse degli artisti anche come oggetti e non solo come segni.

Una strada che in Italia è stata avviata e percorsa con determinazione, facendola diventare un vero e proprio percorso di ricerca artistica, dall’artista piacentino Giorgio Milani, che ha costruito i suoi Poetari con i caratteri mobili «quelli proprio inventati da Gutenberg, di differente tipo e misura, e anche epoca, e stile», che hanno inaugurato la realizzazione di opere costruite con l’assemblaggio di quelli che furono materiale utilizzato per la stampa.

Dopo i Poetari sono arrivate le Torri di Babele, le Torri di Gutenberg, i libri-poetari, le Poesie impossibili, gli Omaggi a poeti e grandi della musica classica.

Giorgio Milani nel suo studio-museo di Piacenza (foto dell’autore)
Giorgio Milani nel suo studio-museo di Piacenza (foto dell’autore)
Giorgio Milani nel suo studio-museo di Piacenza (foto dell’autore)

I lavori di Milani hanno però un antenato illustre, che fa bella mostra di sé in una sala del centre Pompidou di Parigi: si tratta de la grande Momie di Paul Armand Gette, che già nel 1947 aveva costruito questo sarcofago eretto fatto di caratteri di legno.

In un momento in cui tutto diventa virtuale e scompare la materia, dove tutto è rintracciabile in un menù a tendina del nostro portatile o comunque perde la consistenza, la presenza tridimensionale delle opere di Milani ci invita a riflettere sulla fisicità dei caratteri elevandoli attraverso la loro “rigenerazione” in termini di memoria e insieme di attualità.

Paul Armand Gette, “La grande Momie”, 1947 (foto dell’autore)
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