Da secoli, attraverso il ricamo, sono state raccontate storie. Storie semplici e storie dalle trame (!) fittissime. Storie sacre, storie profane, storie di eroi, di santi, storie quotidiane, storie di violenza. Un filo a unire il mondo intero, attraverso il tempo, attraverso milioni di mani — perlopiù mani di donna, che da altre mani hanno imparato e ad altre mani tramandato un’arte antichissima che è sia universale che, per tecniche, tematiche e tradizioni, legata al territorio.
Quel stesso filo ha raggiunto anche l’artista californiana Michelle Kingdom (di lei abbiamo già parlato in passato: qui e qui), che inizialmente ha cominciato a praticare il ricamo come atto creativo essenzialmente intimo — «una forma d’arte molto privata, che ho scelto di tenere per me per molti anni. Era un rifugio dalle influenze esterne, dai giudizi che spesso sabotavano i miei tentativi di dipingere», spiega lei, che solo da pochi anni ha deciso di rendere pubblici i suoi lavori con ago e filo, ottenendo un immediato successo.
Il filo, nelle opere di Kingdom, non è solo strumento ma, spesso, è anche metafora, utilizzata per raccontare stati d’animo, relazioni, sottili violenze, consapevolezza di sé, esplorazione della femminilità.
I nuovi lavori sono visibili sul suo sito (mentre su Instagram c’è il making of).