Per tenere stoviglie e servizi da tavola, da usare come dispensa, per mostrare la cristalleria in sala da pranzo o tenere le proprie collezioni: in italiano la chiamiamo credenza (ma ci sono anche le vetrinette, le madie, i buffet, e le differenze sono talvolta sottili), nome che com’è evidente, ha origini curiose. Nel Medioevo e nel Rinascimento, infatti, in quelle ricche dimore che potevano permettersi di avere stuoli di servitori, gli scalchi — cioè coloro che tagliavano e servivano le carni — e i coppieri — che versavano il vino — erano soliti assaggiare tutto prima di portare a tavola: se qualcosa era stato avvelenato, loro erano i primi ad accorgersene (e a sacrificare la pellaccia). Come spiega il bel sito Una parola al giorno, “fare la credenza” significava proprio effettuare questo tipo di prova e da lì viene il nome del mobile.
Nel vocabolario degli anglosassoni, invece, la credenza si chiama cabinet, che in realtà è un termine molto vasto, dentro al quale stanno comodamente svariate tipologie di mobilia: dall’armadietto allo stipo, dalla dispensa allo scaffale, fino ad arrivare a rappresentare intere stanze, come nel caso dei cabinet of curiosities, meglio conosciuti come Wunderkammer.
Ma la vera particolarità dei cabinet è l’ambiguità che è intrinseca sia alla forma che alla funzione: una credenza può mostrare, può nascondere e può conservare. E to show, to hide and to keep sono anche i titoli delle tre sezioni del nuovo numero della pluripremiata rivista indipendente olandese MacGuffin, che dedica ogni uscita a un diverso oggetto, costruendoci attorno contenuti davvero molto interessanti, che spaziano dal design all’arte e alla cultura.
Se il primo numero era dedicato al letto, il secondo alla finestra, il terzo alla corda, il quarto al lavello, l’ultimo, in quinto, è proprio sulle credenze.
