Cose che ho visto fare dentro, sopra o attorno a un lavello: lavare i piatti, mettere i piatti sporchi che non si ha voglia di lavare, pulire le verdure, lavare la carne, lavare i capelli, fare il bagnetto a un bambino piccolo, lavare i denti, spegnere le sigarette, raffreddare un biberon troppo caldo, buttare i pezzettini di cibo incastrati nei denti, cercare di recuperare con le bacchette cinesi qualcosa di importante caduto nel buco, sputare, vomitare, aprire l’acqua calda per scaldare le mani di chi ha freddo, sentire qualcuno dire «in Basilicata c’è una cittadina che si chiama Lavello», strizzare una spugna imbevuta di sangue, raccogliere i vetri di un bicchiere rotto, sciacquare una ferita aperta, piangere.
Da non confondere col lavandino — perché tutti i lavelli sono lavandini ma non tutti i lavandini sono lavelli — il lavello della cucina fino a (relativamente) poco tempo fa non esisteva, perlomeno così come lo conosciamo oggi.
Andando indietro nel tempo, i lavelli a incasso sono arrivati intorno agli anni ’60, quelli in ceramica risalgono alla fine dell’800/primi del’900 (ma non hanno iniziato a essere prodotti in serie prima degli anni ’50), mentre fino a metà ‘800 di vasche e lavabi non ce n’erano proprio, in cucina.
«A metà del diciannovesimo secolo, quanto meno nelle case del ceto medio, le cucine servivano soltanto a preparare il cibo; le pulizie venivano effettuate nel retrocucina […], il che significava che piatti e pentole dovevano essere trasportati in un’altra stanza, dove venivano lavati, asciugati e riposti, per poi essere riportati in cucina quando ce ne fosse stato di nuovo bisogno», scrive Bill Brison nella sua interessante e spassosa Breve storia della vita privata (Guanda, 2010).
Dagli anni ’50 in poi, il lavello è diventato uno dei centri assoluti della cucina e dunque della casa e di conseguenza della vita di ciascuno.
Non a caso, i racconti di Carver sono pieni di lavelli. Prova ad andare a cercare in una delle tante raccolte: lavelli ovunque. In Cattedrale, che è il suo racconto probabilmente più famoso, in Se così ti piace, in La torta, in Biciclette, muscoli, sigarette, in Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, in Attenti, in Vitamine.
Attorno al lavello della cucina si consumano le epifanie e i drammi quotidiani che hanno poi effetti enormi nell’esistenza dei protagonisti. Nella descrizione di ciò che c’è dentro un lavello, o su cosa c’è intorno, in cucina, vedi quella piccola, esatta pennellata tipica di Carver, a cui bastano pochi particolari per dipingere un’atmosfera, un personaggio o un ambiente, senza sprecare fiumi di inchiostro ma utilizzando solo e soltanto le parole necessarie, quelle giuste, né più né meno.
Lavelli piccoli per cucine e vite squallide, lavelli ordinati, lavelli illuminati dal sole per quei pochi momenti pieni di speranza, lavelli in cui buttare pezzi della propria vita, lavelli a cui appoggiarsi per sostenere il peso di una tragedia.
E poi nel lavello c’è il buco. Un buco che inghiotte, un buco che collega il tuo piccolo mondo al resto della città, un buco che ti porta fino al mare. Un buco è una vertigine, che attrae a sé.
«Cosa c’è laggiù? Cosa c’è lungo il suo percorso? Un orecchino che è stato incidentalmente lavato via, una lente a contatto perduta, una ninfa che si è perduta?«, scrivono gli editor di MacGuffin nell’introduzione al nuovo numero della loro rivista, citando anche Calvino e le sue Città Invisibili, come Armilla, la città che è una foresta di tubi dell’acqua, dove non ci sono né muri, né soffitti, né pavimenti, e «si direbbe che gli idraulici abbiano compiuto il loro lavoro e se ne siano andati prima dell’arrivo dei muratori; oppure che i loro impianti, indistruttibili, abbiano resistito a una catastrofe, terremoto o corrosione di termiti».
Tra le più belle e interessanti riviste d’arte e cultura uscite negli ultimi anni, MacGuffin prende il nome dall’espediente narrativo reso celebre da Alfred Hitchcock, e utilizza a sua volta come MacGuffin degli oggetti banali per parlare d’arte e di design, di uomini e di luoghi, di storie e di Storia.
Se il primo numero era dedicato al letto, il secondo alla finestra e il terzo alla corda, il quarto — presentato anche durante la scorsa design week milanese con un’installazione allestita presso Palazzo Clerici — ha come soggetto proprio il lavello.