C’è tutto un modo di fare che, a fasi alterne sposta la parola rivoluzione da una parte all’altra di quel sottile filo che dividerebbe il sublime dall’impossibile, l’onirico dall’incubo, la purezza dall’infantilità.
Per alcuni la rivoluzione è una parola tattica, preferibile e indossabile secondo la moda: aspettate il 25 aprile per vedere quanti diventeranno partigiani. Non dovranno aspettare nemmeno il 26 per cambiare d’abito.
Per alcuni la rivoluzione è una parola generazionale e la conoscono solo loro che l’hanno fatta nel 1968. Che poi, già negli anni 80 chissà in quale cassetto (o conto in banca) l’avevano riposta.
Per una signora che ho incontrato una volta durante i miei anni di liceo, la rivoluzione è una fase organica della vita.
Se non sei comunista da giovane, sei senza cuore. Se lo sei da vecchio, sei senza cervello.
E poi ci sono gli scienziati, per cui un moto di rivoluzione non ha nulla a che vedere con la presa di coscienza di una classe oppressa che si esplica in azioni volte a sovvertire l’ordine precostituito, bensì quello che un corpo celeste compio attorno ad un centro di massa.
E, se pure questa parola è tanto ab-usata, io devo in questa occasione celebrarla. Siamo nel 2017, e una delle rivoluzioni più importanti della storia, che mi piace ricordare qui anche perché si chiama d’ottobre ma è avvenuta in novembre, compie 100 anni.
Ha 100 anni, la signorina Rivoluzione d’ottobre, e io ho regalato questo bisticcio ad una delle persone che, folle o non folle, sa da che parte stare della linea tratteggiata all’inizio di quest’articolo. Lui è Claudio, tra i fondatori di Officina Novepunti e Letterpress Workers, grande amico con cui andrò in manifestazione tra pochi giorni.
E spero di vedervi in tanti, che ce n’è bisogno, di folle.
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