Relegati fino a qualche anno fa tra le pagine della fantascienza più polverosa, sugli scaffali dei negozi di giocattoli, nelle catene di montaggio delle fabbriche e nell’immaginario retrofuturistico — con quel pizzico di nostalgia nel ricordare quando riponevamo tutti una cieca fiducia nel progresso e investivamo i nostri sogni in un futuro di macchine volanti, tappeti mobili, distributori automatici per qualsiasi cosa e automi che lavoravano al posto nostro lasciandoci enormi quantità di tempo libero —, oggi il discorso attorno alla cibernetica e all’intelligenza artificiale ha riacquistato talmente tanto smalto da trascendere i confini delle riviste scientifiche ed entrare nel dibattito quotidiano attraverso giornali, riviste e social network (ultime, in ordine di tempo, l’idea di tassare i robot e la discussione sul fatto se meritino o meno anche loro di avere dei diritti).
Quella di “umanizzare” le macchine, dopotutto, è una delle più grandi sfide lanciate dall’uomo a sé stesso e alla natura. A ricostruirne la storia, perlomeno da un punto di vista visivo, uscì qualche mese fa un libro del critico d’arte e giornalista Luca Beatrice, Robot. Il grande atlante visivo sul robot, dall’antica Grecia alle intelligenze artificiali, al quale va ad aggiungersi, conquistando un posto d’onore nella propria ideale libreria robotica, Robots: The 500-Year Quest to Make Machines Human.
Muovendo dai primi automi del ‘600 (quindi partendo da un punto molto più prossimo a noi rispetto al libro di Beatrice), l’opera va ad indagare non tanto come funzionano i robot ma perché esistono — perché cioè abbiamo deciso di intraprendere la sfida di cui sopra.
Ricco di immagini anche rare, il volume è stato pubblicato dallo Science Museum di Londra, e accompagna una grande mostra, intitolata semplicemente Robots, inaugurata lo scorso 8 febbraio e allestita fino al prossimo settembre.