Nel 1985, quando avevo sei anni, convinsi i miei a comprarmi Qui, quo, qua e i robot, libro illustrato per bambini che esordiva con una insolita inversione dei ruoli, con Paperino in vena di saccenteria che acquistava un automa, una bambola-pianista, e poi si metteva a spiegare ai diffidenti nipotini l’origine della parola robot (dal ceco robota, cioè lavoro forzato, pesante), sostenendo che «fin dai tempi antichi gli uomini hanno sempre cercato di avere schiavi… robot…».
Qui, quo e qua, a quel punto, tornavano a essere i soliti pedanti e curiosi personaggi di sempre, ribattendo che i robot non dovevano per forza essere schiavi ma potevano pure essere degli amici, ed ecco che dal nulla, senza alcun motivo apparente, spuntavano fuori le guest star del libro, Old Bob e Vincent, due androidi co-protagonisti di un vecchio film Disney del ’79, The Black Hole – Il buco nero, che non ho mai avuto modo di vedere.
In un’apoteosi di techno-mania positivista, il libro proseguiva con i due robot che mostravano ai nipotini le meraviglie che possono fare i loro “cugini” fatti di transistor, dalle macchine della catena di montaggio di una fabbrica di automobili al termostato che regola la temperatura di casa, dalla lavatrice a un fantomatico robot giapponese che «possiede otto macchine fotografiche che usa come occhi», fino ad arrivare ai computer, alle sonde spaziali e ai satelliti che permettono le telefonate intercontinentali e le dirette tv delle partite (è proprio così che si concludeva la storia, con Old Bob e Vincent che telefonavano a Qui, Quo e Qua dalla loro astronave e Paperino che guardava la coppa del Mondo di calcio).
Quello fu il mio primo libro sui robot. E vista la passione con cui continuavo a leggerlo e rileggerlo, mio padre, appassionato di fantascienza, pian piano mi indirizzò su Asimov (ovviamente Io robot), mi spiegò le tre leggi della robotica, mi prese un manuale per programmare in linguaggio basic col mio fidato computer Spectravideo (64k di Ram!) e più o meno involontariamente mi trasformai nel classico ragazzino secchione che faceva esperimenti in garage, smontava le cose, provava a costruire un’astronave col suo migliore amico dopo aver visto Explorers.
La visione ingenua di un futuro in cui automi e computer avrebbero risolto tutti i problemi del mondo, svolto i lavori pesanti lasciando a noi umani molto tempo libero per divertirci e portato su altri pianeti lontani non era esclusiva dei ragazzini un po’ nerd. Nonostante 2001: Odissea nello spazio fosse uscito nel ’68, Blade Runner nell’82, Terminator nell’84, la cosiddetta new wave della fantascienza avesse già partorito capolavori assoluti di distopia e fossimo già in piena era cyberpunk, l’uomo medio — “imboccato” dai giornalisti in tv e dai divulgatori di argomenti scientifici — respirava una certa aria di ottimismo e, anzi, aspettava con impazienza notizie di nuove scoperte, di macchine meravigliose, di navicelle iperveloci, di robot intelligenti che gli avrebbero migliorato la vita.
Quando poi siamo arrivati ad appena un pelo dall’esserci davvero in quel futuro che immaginavamo — e cioè oggi — lo stesso uomo medio (il cui funerale, nel frattempo, è già stato celebrato più e più volte, ma resiste ancora, con le unghie, con i denti e con lo smartphone) ha cominciato a chiedersi come mai, pur utilizzando da decenni tecnologie sempre più sofisticate, l’era dello spasso e del tempo libero non fosse ancora arrivata e, anzi, se proprio si dovesse spiegare chi è schiavo di chi sorgerebbero dei problemi.
La domanda, in soldoni, è stata sempre la stessa fin dall’inizio ma in pochi («i soliti artisti…») se ne sono accorti per tempo: questi robot, alla fine dei conti, sono buoni o sono cattivi?
Lo stesso, fondamentale interrogativo sta alla base di un libro uscito in queste settimane, pubblicato da 24 Ore Cultura: Robot. Il grande atlante visivo sul robot, dall’antica Grecia alle intelligenze artificiali, a cura del critico d’arte, curatore e giornalista Luca Beatrice.
Muovendo dai robot della storia (il primo ad avere sembianze umane fu il Servo automatico progettato nel III Secolo a.C., a Bisanzio, dall’ingegnere e scrittore Philon: era capace di servire vino), Beatrice passa all’arte, al cinema, alla tv, alla musica, al design e alla moda, ai libri, ai fumetti e ai giochi, per arrivare al settore cruciale, la tecnologia e l’intelligenza artificiale di cui si parla sempre più insistentemente negli ultimi anni.
Una risposta al “buoni o cattivi?” alla fine Robot — che non è un saggio ma una spassosa mappa storico-culturale in cui la cultura pop, com’è facile immaginare, predomina — non la dà. E, in effetti, una risposta proprio non c’è, esattamente come, allo stesso modo, non esiste neppure per noi umani: dopotutto siamo noi a costruire i robot e per forza di cose lo stesso ambiguo “bug” di cui siamo affetti lo passiamo alle nostre creature, così come qualcuno o qualcosa (creature da altri mondi, dei, la natura, un’altra intelligenza artificiale nel caso, come sostiene qualcuno, anche l’universo non è che una simulazione software), forse, l’ha trasmesso a noi.