A Praga sono stato tre volte, dal 1992 al 2006. Sono quasi dieci anni che non ci torno quindi non so come sia diventata ora ma nei miei ultimi due viaggi ho visto una città sempre più—scusami il cacofonico neologismo—“venezizzata” (o “firenzizzata”), con frotte di turisti più attenti a fotografare il fotografabile, calpestare il calpestabile, gridare ai quattro venti per chiamarsi l’un altro, scegliere piatti tutt’altro che locali da menù internazionali o pizzerie o fast food e comprare brutti souvenir, invece che di godersi l’atmosfera di un luogo che per centinaia di anni ha potuto definirsi, e a ragione, magico.
Il viaggio del ’92 invece fu qualcosa di diverso. Avevo tredici anni, ero coi miei genitori, andammo in macchina, sotto a un cielo perennemente plumbeo che contribuì a creare l’atmosfera, assieme al Dracula di Bram Stoker che lessi durante il viaggio (avevo appena visto il film e canticchiavo Love song for a vampire di Annie Lennox tra me e me) e sul letto freddo della camera dai soffitti altissimi e un po’ malandata che affittammo in città.
Prima di partire mi ero vagamente informato sul Golem e la sua leggenda. A casa avevo il comodino pieno di Kundera, Kafka, Lovecraft, e i Millelire di Poe, Walpole, Polidori, Sheridan e LeFanu: le “solite letture gotiche” da ragazzino, insomma, accompagnate ovviamente da una caterva di Dylan Dog e un po’ di metal-finto-metal.
All’epoca Praga era ancora Cecoslovacchia. C’era stata da poco la Rivoluzione di Velluto. La città si era già molto occidentalizzata (così almeno disse mio papà) ma i turisti erano ancora pochi—mi pare fosse autunno perché ho un ricordo di foglie secche e alberi spogli, soprattutto quelli del cimitero ebraico, che allora mi mise brividi (magari fu pure l’età, c’è da dirlo) che le visite successive però cancellarono, per via delle code stile parco dei divertimenti.
Era difficile farsi capire, si mangiava perlopiù piatti del posto, e la sera, la sera c’era un’atmosfera che faceva contemporaneamente gelare le ossa e scaldare il cuore: vedevo quei volti magri, affilati, seri, rincasare negli appartamenti fuori dal centro e mi immaginavo le loro case (un immaginario figlio dei film da guerra fredda che guardavo e soprattutto dei romanzi di Kundera).
Quella Praga lì, credo, non esiste più (per la gioia delle tasche degli abitanti: il rovescio positivo della medaglia). Come non esisteva già più nel ’92 la Praga che esce fuori da questo vecchio libro fotografico da sfogliare integralmente sul sito Archive.org (o qui, in fondo all’articolo).
Uscito in inglese e francese negli anni ’50, il libro mostra attraverso le foto di un certo M. Kučera una città scura, in parte ancora rurale, illuminata però da lampi di luce inediti, in un chiaro-scuro espressionista che attraverso i contrasti riesce a riportarti indietro, non senza nostalgia, seppur non avendola mai vissuta direttamente, alla Praga Magica di Ripellino.