Milano Design Week: di come Lexus riesce a risvegliarti i sensi

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Guardare ma non toccare!
Te lo dicono fin da piccolo quando — sadicamente — ti mettono di fronte a vere e proprie meraviglie dell’ingegno o dell’arte e poi ti costringono a restartene lì, imbambolato, affamato di sensazioni che però devono restare “zoppe”: solo la vista puoi usare, caro mio, e se proprio sei fortunato puoi goderti pure l’audio e l’odore («ma non andar troppo vicino col naso eh! Sia mai che fai danni»), però il gusto e il tatto tienili fermi lì, al guinzaglio.
E anche quando cresci le cose non è che cambino molto. C’è sempre qualche «non toccare», pare anzi che i «non toccare» crescano con te: nei musei, alle mostre, nei piatti degli altri al ristorante, a quel “circo maximo” dei sensi che potrebbe essere la settimana del design milanese.

Poi però senti dire da qualcuno: «oh, ma lo sai che si può toccare tutto, ma tutto tutto davvero», e dopo chilometri macinati per le vie meneghine tra vasi delicatissimi, marchingegni fragili fragili, strutture sul punto di crollare, scavalchi il ponte di Porta Genova, prendi giù per via Tortona, svolti a destra al numero 32 e una volta per tutte ti vendichi di anni, decenni di «non toccare». Ché da Lexus, i sensi, li pigliano sul serio.
E hanno chiamato un designer francese del calibro di Philippe Nigro a progettare una struttura che permettesse di farci dentro persino un viaggio, nei sensi, amplificato (“aumentato”, si direbbe oggi nel linguaggio di chi vive dentro a uno smartphone) dai sapori e dalle consistenze create dallo chef giapponese tri-stellato Hajime Yoneda.

Tutto comincia da una sala degli specchi. Una cupola piena di deformanti, scintillanti specchi capaci di spezzettare in frammenti infiniti tutto quel che entra lì dentro. E ti ritrovi, accanto allo spaziale prototipo del modello LF-SA del marchio giapponese, a rimbalzare, frantumato in migliaia di frammenti, di qua e di là della cupola. Non fai a tempo a vederti riflesso che, con un minimo movimento, sparisci da qualche altra parte, in mezzo al turbinio di colori che ti fanno diventare rosa, verde, azzurro, addirittura in bianco e nero.

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Riafferrati tutti i pezzi, te ne esci intero per ributtarti nella sala con i progetti finalisti del Lexus Design Award — ma di questi parlerò nel prossimo post — prima di entrare nel vivo dell’esperienza, dentro a uno stretto tunnel che si apre su una stanza buia in cui il rumore della pioggia arriva da tutte le direzioni e ti sovrasta di fronte a una parete che è in realtà una pioggia colorata, da guardare, sì, e da toccare, ma anche da assaggiare.

Assaggiare la pioggia?! Esatto.
Lo chef Yoneda ha pensato di farti provare la sensazione di scoppiettante e fresca umidità pure in bocca, con delle boccettine piene di cristalli che assomigliano alle care, vecchie Frizzy Pazzy.
Il risultato? Impossibile descriverlo con una foto o un video: bisogna provare.

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Un video pubblicato da Frizzifrizzi (@frizzifrizzi) in data:

Piove piove piove. Ti piove dentro per farti immaginare che piova fuori. E funziona. Finché “bagnato” come sei t’infili di nuovo nel tunnel fino a una cupola luminosa, un nido che emana luce come fosse illuminato dal sole del mattino.

Il pavimento vibra e ogni suono arriva da angolazioni inaspettate. Metti un bocca una pallina verde e quella esplode all’improvviso. Sa di… sa di natura. Sei sopra a un albero. Sei avvolto dall’albero.
Chiudi gli occhi, gusti, provi a parlare e la tua stessa voce ti arriva da dietro, da destra, da sinistra, da sopra, da sotto…
«Ah, ah, prova, prova» continui a ripetere, mentre in un angolino del cervello una vocetta vispa comincia a sussurrare «essere svegli è questo»: all’inizio non ci fai troppo caso ma la vocetta diventa sempre più insistente, è la tua mente che sta provando a dirti qualcosa.

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Intanto ti rituffi nel tunnel, che si apre in una sala buia che sembra piena di stelle. È il cielo, quello? O è il mare, che notturno scintilla? Allunghi le mani e sembra di toccarla, la superficie viscida dell’acqua. Pure il cielo, a poterlo toccare, farebbe lo stesso effetto? Siamo fatti degli stessi elementi degli astri e delle galassie, dopotutto. Veniamo dallo stesso brodo primordiale, a cui lo chef ha pure dato un sapore: è una zuppa, ricca, calda, naturale ma complessa allo stesso tempo, che accarezza il palato e rassicura. Sa di casa, sa di terra. La stessa terra che poi vedi proiettata su un tavolo e quando ci appoggi la mano pare che si muova tutto. Che ti porti via verso le stelle, come un razzo (e in fin dei conti è così, no? Viaggiamo su questo razzo per ogni singolo istante della nostra vita e nemmeno ce ne accorgiamo).

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Un video pubblicato da Frizzifrizzi (@frizzifrizzi) in data:

Ma il bello viene dopo. Il bello arriva quando esci, e dopo un minuto con lo sguardo perso nel vuoto — a “digerire” quel che hai appena vistosentitotoccatoassaggiatoodorato — te ne torni in strada. Tra la folla. Come prima ma diverso da prima.
Ché il tempo passato là dentro (già, quanto ne è passato?) ti ha fatto balenare in testa una considerazione, che è poi quel che la vocetta insistente provava a dirti fin da prima.

E cioè che siamo automi, e come automi viviamo pezzi delle nostre vite che potremmo benissimo mandare “avanti veloce”, come nel film Cambia la tua vita con un click.
Sempre persi nei pensieri coi quali, da abili muratori, costruiamo il muro della routine, persi sopra a un piccolo schermo luminoso che risucchia gli input dall’etere, li converte in bit li rivomita fuori in forma di pixel, di trilli, di cinguettii, di vibrazioni, di notifiche, di frammenti d’informazione affamati d’attenzione: aprimi, rispondimi, fai, clicca, vota, firma, supporta, metti mi piace, guardami guardami guardami, più e peggio di un bambino viziato.

Come su un nastro trasportatore ci spostiamo nello spazio e sprechiamo il tempo, senza chiederci “quando stiamo andando e quando stiamo facendo”. Mille impegni, diecimila contatti, centomila blip, click, swipe che richiedono un pezzettino, pure minuscolo, ma di quello che in fin dei conti è l’unico IO che abbiamo, o che perlomeno proviamo a costruire con quel che ci è dato e tutto quel che siamo riuscito a raccogliere dalla vita.

Finché non arriva l’inaspettato, lo schock, il botto che ti risveglia e ti fa drizzare le antenne. Che ti ributta nel presente ma stavolta con la consapevolezza di esserci dentro, lì e ora, con tutti i sensi appunto, con ogni singolo neurone. Talvolta, il botto, è il caso a piazzartelo davanti, con la sua infinita dolceamara ironia. Ma tante volte è lì dietro l’angolo il botto che risveglia, ma siamo talmente distratti da non accorgercene nemmeno.

La storia dell’uomo è disseminata di allegorie, di ricette, di scuole, di religioni, pratiche mistiche, costosissimi corsi, fantomatici guru, talvolta pure semplici e giocosi libricini che provano a insegnarti come coltivare la capacità di saperlo accogliere e perfino utilizzare, l’inaspettato.
E il viaggio dei sensi di Lexus — che puoi fare pure online, anche se non è proprio la stessa cosa — è uno di questi “botti”, di questi “sgambetti”, messi lì apposta per farti provare sulla pelle cosa significa rendersi pienamente conto di dove si è, di quando si è, di cosa si sta facendo.
Prendilo come un regalo: un pezzetto di spazio e di tempo regalati. Per imparare a godersi meglio anche tutti gli altri che verranno.

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