In inglese si chiamano house organ. In italiano usiamo un più semplice giornale aziendale, che allaccia un link linguistico sicuramente più diretto e onesto, rispetto al corrispettivo anglosassone, a quello che è poi il fine ultimo di riviste del genere: il marketing.
Perché al netto delle grandi firme del giornalismo, dei progetti grafici all’avanguardia, dei contributi anche altissimi al discorso culturale — questo soprattutto negli anni d’oro dell’editoria, quando di giornali aziendali ne esistevano di prestigiosissimi e lavorarci, per i giornalisti, era molto ambito (nonché lucroso) — al netto di tutto, dicevo, si trattava e si tratta di questo: di strumenti di marketing.
Di giornali aziendali di alto profilo, in Italia, ne abbiamo avuti molti. Con grandi nomi dell’arte, della letteratura e del giornalismo a farsi le ossa, ad arrotondare il gruzzolo o a sperimentare — grazie al mecenatismo illuminato di qualche industriale — stili, tecniche e idee che mal si adattavano all’editoria tradizionale.
Giusto per fare qualche esempio: sulla rivista Pirelli, pubblicata fino al ’72, scrivevano Eco, Buzzati, Quasimodo, Montale, c’erano le illustrazioni di Guttuso e la direzione artistica passò, tra gli altri, anche nelle mani di Vignelli; Italo Calvino scrisse su Il gatto selvatico, periodico del gruppo Eni pubblicato negli anni ’50 e ’60; Ugo Mulas, Gabriele Basilico e Gianni Berengo Gardin facevano uscire le loro foto sul giornale della IBM e Mario Giacomelli scattava per quello dell’Italsider.
E ancora: Gae Aulenti fece l’impaginatrice in Tecnica e Organizzazione, giornale pubblicato dalla Olivetti fino al ’58, e un giornalista inflessibile come Giorgio Bocca firmò articoli su Il quadrifoglio (Alfa Romeo) e per la Ideal Standard.
Oggi ovviamente questi livelli ce li possiamo soltanto sognare eppure, come conseguenza alla crisi in cui versa l’editoria a livello mondiale, gli house organ stanno tornando alla ribalta.
Mettendo da parte le coraggiose sperimentazioni della prima metà del ‘900, ora lo sguardo dei giornali aziendali è puntato verso il panorama delle riviste indipendenti, alle quali ci si ispira sia per i contenuti che per il progetto grafico.
Di recente ha riaperto, aggiornata, la storica rivista del colosso tipografico Monotype, la Penguin sta pensando di promuovere i classici in catalogo attraverso un magazine vagamente pop e Illy ha interamente ripensato la sua illy•words alzando ulteriormente il tiro.
Ultimo nato in questa strana famiglia dei giornali aziendali è Pineapple Magazine, appena lanciata da Airbnb.
Pineapple Magazine prende il nome dall’ananas (pineapple, appunto), che nel New England è simbolo di ospitalità. In uscita ogni tre mesi, la rivista raccoglierà i contributi di scrittori, giornalisti e fotografi di fama internazionale e verrà distribuito gratuitamente in alcune case selezionate tra quelle che fanno parte del più grande network di bed&breakfast del pianeta ma sarà anche venduto in alcuni punti vendita (anche in Europa) nonché online qui.