Lunga e diritta correva la strada… (le aziende italiane del tessile finiranno per essere delle riserve indiane?)

Giovedì scorso mia figlia ed io abbiamo attraversato a gran velocità la val padana. A mezzogiorno l’autostrada pedemontana era praticamente deserta, il condizionatore dell’auto sbuffava anche lui per il gran caldo ed ogni tanto sputava fuori dalle bocchette qualche gocciolina dell’umidità che non riusciva ad abbattere.

Dovevo ritirare solo dei campioni di tessuto, ho voluto però che mia figlia mi accompagnasse, che avesse modo di vedere il ventre malinconico di una delle ultime fabbriche di tessuto ancora attive nella zona pedemontana. Appena arrivati, una breve sosta nella saletta di attesa anni ‘70, impregnata degli odori e dei rumori della fabbrica, un insieme di soda, naftalina, odore di lana bagnata. Per uno che conosce le fasi di produzione del tessile era facile capire che lì era attivo il ciclo completo: tessitura, tintoria e finissaggio.

Ci ha accolti in modo cordiale il disegnatore delle collezioni, che ci ha illustrato in modo molto partecipato i vari tipi di tessuto. Finché mia figlia sceglieva e confrontava i tessuti io guardavo i vari reparti dalle vetrate della sala campionario, posta praticamente al centro della fabbrica. Da ognuno dei reparti arrivava, quando si apriva una porta, una folata di aria con odore e temperature diverse.

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Faceva un po’ specie vedere i tessuti entrare nelle macchine con aspetto e mano cartonata ed uscire poi così morbidi e diversi da tipo a tipo, dalle tele di lana asciutte e scattanti ai panni impettiti, alla lana cotta, con la sua aria vissuta, ai morbidi mohair.
Ogni tessuto di lana ha una sua personalità, che a voler cercarla si esprime in sesso, età e carattere. Il panno, la flanella, la lana cotta, la tela di lana, ad ognuno si potrebbe attribuire una faccia.

Attraversando i reparti per uscire non sono riuscito a passare vicino ai carrelli senza toccare i tessuti: l’attrazione era troppo forte.
Mi piace osservare le persone che fanno il loro lavoro. L’età media, lì, era indubbiamente oltre i 45 anni, di giovani nemmeno l’ombra, credo in parte per via del rifiuto dei giovani ad impegnarsi in lavori poco gratificanti, e probabilmente anche per mancanza di un turn-over fisiologico bloccato dalla crisi del tessile. Intuizione confermata da Giordano, il magazziniere, che conosco da tanti anni.

Oltre a lui in fabbrica ho riconosciuto altre facce, viste in altre aziende della zona oramai chiuse da anni. Questa azienda è diventata una sorta di riassunto e di sintesi della storia importante che il tessile ha avuto in quelle zone. Competenze e storie che, se va avanti così, senza un ricambio generazionale, andranno inevitabilmente perdute: l’abilità del tessitore, la sveltezza della rammendina, la mano veloce che annoda il filo con una mano sola, la bravura di chi si occupa del finissaggio usando per ogni tessuto una sapiente alchimia di lavorazioni acqua, macchine, temperature e prodotti. Tutte andrà probabilmente perduto.
«Ci saranno i laureati in scienze della comunicazione», mi ha detto Giordano salutandomi con un sorriso amaro, «che comunicheranno che il tessile è andato in mona».

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Veniamo accompagnati alla saletta d’attesa, alla parete il quadro austero del fondatore, lo sguardo duro di chi è partito dal niente. Faceva l’impannatore. Un industriale senza impresa: comprava il filato, lo faceva lavorare e trasformare in tessuto dai terzisti e lo rivendeva. Poi il salto di qualità e l’acquisto di una fabbrica, appartenuta ad un suo fornitore senza eredi che aveva deciso di ritirarsi.

Quell’odore che sentivamo prima nella saletta, uscendo dai reparti più impregnati già si sentiva meno, per l’assuefazione. Prima di andarmene ho chiesto come andasse il lavoro, per farmi rispondere che l’80% di quei tessuti va in Giappone, in Inghilterra e in Francia! In Italia sempre meno, mentre una volta era il contrario.

A pensarci bene sembra che la crisi, in Italia, oltre a travolgere l’industria ed il benessere abbia travolto pure il buon gusto.
Siamo stati anche molto più poveri di adesso, la gente però si vestiva in maniera più garbata ed elegante. Adesso le catene della moda fast food continuano a servire il menù rancido preparato nelle cucine dei vari “Rana Plaza” dislocati in giro per il mondo.
I clienti sono convinti di fare un buon affare ma forse l’affare lo fa solo la multinazionale che ti rifila quegli stracci, non certo tu né la schiava che lo ha cucito.

Siamo saliti in macchina e siamo arrivati in autostrada. Mia figlia non aveva voglia di parlare e neppure io. Mi è tornato in mente il titolo del Sole 24 ore del novembre 2011: “Fate presto!”.
Sì, far presto, per salvare perlomeno quello che di buono è rimasto in Italia. Sono passati due anni e mezzo. Forse chi doveva far presto quel giorno non ha comprato il giornale.

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Mi è tornata in mente la mia amica Francesca, qui di Frizzifrizzi, e il suo toccante post di qualche settimana fa sul Lanificio Leo. Ho pure scritto per complimentarmi. Gente così non può che starmi simpatica: chi resiste in Italia merita la medaglia, chi resiste in Calabria medaglia più croce di guerra!

Ho riletto un’altra volta il post, ieri sera, insieme alle email che ci siamo scambiati io e Francesca. Lei ha la sensazione che è da queste realtà che ripartirà il made in Italy mentre io non riesco a condividere il suo ottimismo: qui in zona vedo troppe ciminiere spente e la mia triste sensazione è che il generale Custer con il suo possente esercito fatto di delocalizzazione selvaggia, di costi impossibili, di regole folli e di ottusa burocrazia sia ormai arrivato a sterminare quasi tutti gli indiani.

Le poche aziende tessili rimaste ho l’impressione che diventeranno delle specie di riserve dove tener buoni gli indiani. Il resto, il grosso, è andato dove la vita per le imprese è più semplice. Vuoi mettere la comodità di tingere senza il costo del depuratore, usando i coloranti fuorilegge e poi senza sindacati?
A mia figlia non ho raccontato i miei tristi pensieri. Per lei è già tutto difficile in questo periodo, se poi gli sparo il mio pessimismo rendo ancora più difficile il suo lavoro.

Per “tagliare” l’aria ho acceso la radio.
«Papà gira, i Nomadi no!»
In effetti lunga e diritta correva la strada non è un gran buon auspicio.

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